Il delitto Mattarella
di Salvo Palazzolo
Era il sicario utilizzato da Totò Riina per i delitti eccellenti. La sua somiglianza con Giusva Fioravanti
La pista del killer nero è ormai caduta, impossibile dopo tanti anni trovare analogie fra le armi dei Nar e i proiettili sparati quel 6 gennaio 1980. Il delitto del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, il fratello dell’attuale capo dello Stato, resta un mistero. Ma i magistrati della procura di Palermo non rinunciano a cercare la verità. E dopo tanti anni ritornano sulla pista del killer di mafia, che già i giudici della corte d’assise d’appello avevano suggerito dopo aver condannato come mandanti i boss della Cupola e assolto i terroristi dei Nuclei armati rivoluzionari Giuva Fioravanti e Gilberto Cavallini.
Ora, le attenzioni sono tutte su Nino Madonia, esponente di una storica famiglia della mafia palermitana, sta scontando l’ergastolo per alcuni omicidi eccellenti, quelli del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, del segretario del Pci Pio La Torre, del commissario Ninni Cassarà, di recente il boss è stato condannato anche per l’assassinio del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio. Madonia, mafioso di tanti misteri e relazioni mai svelate con uomini delle istituzioni, assomiglia molto a Fioravanti. «Esaminando le fotografie — avevano scritto i giudici nel 1998 — balza all’evidenza una solare somiglianza tra i due che hanno tratti somatici molto simili sia con riferimento al colorito degli occhi, all’altezza, al taglio e al colore dei capelli e comunque ai tratti complessivi del viso, anche l’età dei due, poi, appartiene alla stessa fascia» . All’epoca, però, queste indicazioni non avevano portato ad alcun approfondimento. Eppure, erano molto dettagliate, la corte citava le dichiarazioni del pentito Francesco Di Carlo: «Bernardo Brusca, componente della commissione provinciale, mi ha detto che il delitto Mattarella l’ha fatto Nino Madonia» . Commento dei giudici: «Peraltro, nell’ottica di un delitto voluto e deliberato dalla commissione all’unanimità, non regge, sul piano logico, l’impiego di killer esterni all’organizzazione mafiosa. L’ottica dello scambio di favori — prosegue la sentenza — ha un senso per i terroristi neri che avrebbero tratto grande vantaggio dall’aiuto della mafia, ben più radicata nel territorio. Lo stesso non è a dirsi per Cosa nostra, alla quale non fanno difetto né armi di qualsiasi tipo, né killer abili e spietati».
Ma perché il giudice Falcone si era invece convinto della pista nera per il delitto Mattarella? Tutto era nato dalle dichiarazioni del pentito Cristiano Fioravanti, che inizialmente aveva accusato il fratello Giusva, poi aveva ritrattato. La moglie di Piersanti Mattarella aveva però riconosciuto in foto Giusva Fioravanti come il killer “dagli occhi di ghiaccio” che il 6 gennaio aveva sparato. «Ma è un riconoscimento forse viziato da quella somiglianza con Nino Madonia», ipotizzava la corte d’assise d’appello. Resta senza nome anche il complice del killer, che guidava una 127.
Per certo, il delitto del presidente della Regione fu deciso dalla commissione provinciale di Cosa nostra all’epoca già guidata da Salvatore Riina: i mafiosi temevano il cammino delle riforme avviato dal pupillo di Aldo Moro. Dopo il delitto — dice la sentenza che ha dichiarato prescritta l’accusa di mafia per Giulio Andreotti prima del 1981 — l’ex presidente del Consiglio venne in gran segreto a Palermo, per incontrare uno dei componenti più autorevoli della commissione, il boss Stefano Bontate.
«Sentimmo le grida di Bontate — ha raccontato il pentito Francesco Marino Mannoia — Quando Andreotti andò via, Stefano mi disse che il presidente aveva chiesto spiegazioni sull’omicidio Mattarella. E lui gli aveva urlato: “In Sicilia comandiamo noi, e se non volete cancellare completamente la Dc dovete fare come diciamo noi”». Per questo era stato ucciso Mattarella, perché aveva rotto con un sistema di complicità.
La Repubblica Palermo, 23/7/2022
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