Salvatore Borsellino |
«È un cane che si morde la coda e si è voluto che fosse così». All’indomani della sentenza con cui il tribunale di Caltanissetta ha deciso che nessuno pagherà per quello che è stato definito «il più grande depistaggio della storia della Repubblica», Salvatore Borsellino è amareggiato, arrabbiato. «Stanco soprattutto», sottolinea il fratello del giudice Paolo, ucciso il 19 luglio 1992 insieme agli agenti della scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina.
Per i giudici di Caltanissetta, il poliziotto Michele Ribaudo non ha imbeccato il pentito Vincenzo Scarantino perché accusasse della strage di via D’Amelio boss estranei a quel delitto. Sugli altri due imputati, il capo del gruppo investigativo “Falcone e Borsellino” Mario Bò e il suo più stretto collaboratore Fabrizio Mattei, il tribunale neanche si è pronunciato nel merito. Caduta l’aggravante mafiosa, i reati contestati sono stati dichiarati prescritti. «Siamo di fronte a un assurdo paradosso — dice Borsellino — a trent’anni dalle stragi non abbiamo la verità a causa dei depistaggi, e il processo sul depistaggio naufraga perché è trascorso troppo tempo».
Di chi è la colpa?
«Questo procedimento era bacato fin dal principio. Alla sbarra c’erano tre semplici funzionari. Magari la costruzione del falso pentito Scarantino è anche opera loro — aspettiamo la sentenza per capire cosa ci sia dietro quella prescrizione — ma non può essere stata un’iniziativa personale, qualcuno deve averlo ordinato. In ogni caso, che sia finita così non mi stupisce».
A cosa si riferisce?
«Lo Stato non processa se stesso.
Quando sono imputati rappresentanti dello Stato è impossibile avere giustizia. O si viene assolti perché il fatto non costituiscereato, o subentra la prescrizione».
Il riferimento è al processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia?
«Certo. Si attendono da oltre un anno le motivazioni di quella sentenza e che i giudici ci spieghino perché quella trattativa non è reato per i cosiddetti servitori dello Stato, ma per i mafiosi sì. Sarà che sono ingegnere e non avvocato, ma proprio non lo capisco».
Sembra scettico sulla possibilità di arrivare alla verità sulla morte di suo fratello.
«Scettico no, ma sono certo che io non la vedrò. Confido nei ragazzi, forse loro ci saranno quando si capirà davvero cos’è successo».
Eppure lei, tramite il suo legale, ha presentato un esposto a Caltanissetta chiedendo alla procura di indagare ancora e con un raggio più ampio.
«E il giudice per le indagini preliminari si è dovuto opporre alla richiesta di archiviazione presentata dalla procura. Sinceramente ho poca fiducia in quella di Caltanissetta, sembra quasi aleggiare ancora l’ombra del vecchio procuratore capo Tinebra. E infatti l’unica vera indagine non è mai stata fatta».
Sarebbe?
«Quella sulla scomparsa dell’agenda rossa. È quella la scatola nera della strage di via D’Amelio. Altrimenti non si spiegherebbe perché è stata fatta sparire».
A proposito di 19 luglio, lei sarà in via D’Amelio?
«Per me è 19 luglio tutti i giorni, ma lì non mancherei mai. Quest’anno però scegliamo il silenzio. Niente dibattiti, niente interventi pubblici. Il 23 maggio si è ascoltata molta, troppa retorica. Anche da parte di chi non avrebbe dovuto parlare».
Il neo-sindaco è stato invitato?
«Non abbiamo mai fatto inviti ufficiali e mai li faremo. La partecipazione è aperta a tutti. A titolo personale ho chiesto al vescovo Lorefice di essere con noi: lui è da sempre vicino alle nostre battaglie».
La Repubblica Palermo, 14/7/2022
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