di AMELIA CRISANTINO
A lungo la chiesa siciliana ha negato la stessa esistenza della mafia e lunghe ombre scure arrivano sino al presente. Negli anni Sessanta del secolo scorso il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo, poteva impunemente dichiarare che la mafia era «solo una supposizione calunniosa, messa in giro dai socialcomunisti»: erano gli anni delle battaglie civili di Danilo Dolci, anni in cui la povera realtà siciliana veniva negata da una Chiesa ufficiale troppo vicina ai palazzi del potere. E, così com’è accaduto in politica, la paura per l’avanzata dei comunisti ha fornito un alibi perfetto lasciando prosperare le peggiori alleanze.
Il rapporto, per niente facile da analizzare, fra mafiosi e pratiche religiose viene adesso indagato da uno studioso di storia del cristianesimo, Davide Fadda, che con “L’inchino. Santi, processioni e mafiosi nel Meridione italiano” ( Di Girolamo, 168 pagine, 20 euro) pubblica un’agile sintesi affrontando l’intricata questione anche dal punto di vista teologico. Fadda distingue fra il piano dei valori e quello temporale per concludere che la storia della Chiesa nel Mezzogiorno è anche una storia di potere, che il rapporto con i fedeli ha sempre incluso notevoli risvolti sociali e politici. E, come in tutte le strutture culturali, sempre vivo è l’eterno dilemma fra forma e sostanza.
La ritualità religiosa si estende nella società e la riflette, intrecciandosi con quanto emerge: nei Meridione può quindi capitare — troppo spesso ahimè — che i più attivi nelle confraternite, nell’organizzazione delle feste e nelle processioni siano individui che poco hanno da spartire col verbo evangelico. Ma non si tratta di commistioni improprie fra mondi lontani.
Fadda ricorre alle analisi di Alessandra Dino per mostrare come la scarsa attenzione della Chiesa per la dimensione comunitaria sia andata oltre un’incauta tolleranza: la lunga catena degli errori ha finito per favorire il paradosso di una “religiosità mafiosa”, impregnata di una forte carica antisociale e antistatale. È la nostra storia recente. Negli stessi anni, la Chiesa non trovava le parole per parlare di mafia ma non mancava di schierarsi su temi come il divorzio o l’aborto, arroccandosi in intransigenze che ferivano tanti credenti.
Nella separazione fra la forma esteriore e i valori della fede hanno trovato spazio e si sono radicate alcune pratiche ancora oggi molto vitali, in più occasioni ha fatto notizia il santo in processione che viene fermato a onorare la casa di qualche mafioso con un simbolico inchino. Nel 2016, dopo quella che venne definita una “brevissima sosta” sotto il balcone di Ninetta Bagarella, a Corleone, l’arcivescovo di Monreale da cui anche Corleone dipende annunciava un protocollo fra parrocchie e forze di polizia: il risultato sarebbe stato un itinerario concordato apposta per le processioni, e il rimedio lascia intravedere quanto esteso e allarmante possa essere il consenso sociale alla mafia.
Davide Fadda è un giovane studioso, sembra quasi sgomento quando scrive che «i punti di contatto tra le strutture della Chiesa e delle mafie sono molti» non limitandosi alle ritualità esteriori che pure sono così importanti. La Chiesa e le mafie hanno in comune una tendenza “settaria” che spinge gli individui a separarsi e distinguersi dalla figura del cittadino: sia il prete sia il mafioso, prima che cittadini si ritengono parte di un’altra comunità, la Chiesa e la mafia, vissuta come prioritaria anche rispetto ai legami di sangue. Nella cultura del cattolicesimo meridionale, dove i santi intercessori sono più presenti di Cristo, si assiste allo scivolamento da un Dio per tutti e misericordioso a un Dio che protegge la singola piccola comunità, magari a danno del paese vicino. È la religione che lo storico della Chiesa don Francesco Michele Stabile definisce «cattolicesimo municipale» , dove i caratteri del santo protettore replicano il prototipo del signore feudale: la ritualità rimane in piedi, ci mancherebbe. Ma è l’incoerenza fra la formalità del rito e il messaggio che dovrebbe trasmettere che consente la separazione fra il proprio comportamento e la coerenza religiosa: permette di sentirsi vicini alla Chiesa, ma anche alla mafia.
La Repubblica Palermo, 10/7/22
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