RICCARDO ARENA
«Noi abbiamo disonorato la divisa? Noi? Ma se anche ci fosse stato, il depistaggio, lo avrebbero lasciato fare a noi, a due pesci piccoli?».
I tre poliziotti accusati di essere depistatori di Stato sono in pensione e due di loro hanno lasciato come sostituto commissario e sovrintendente, sono rimasti nell’alveo di carriere non proprio mirabolanti, insomma. Non sono vecchissimi – Fabrizio Mattei ha 64 anni, Michele Ribaudo 66 – ma il processo di Caltanissetta li ha fortemente provati. E tuttavia sanno di non poter giocare ruoli da vittime: le vittime sono i figli e il fratello di Paolo Borsellino e i familiari dei cinque agenti di scorta. Per loro ancora una verità monca, anche a causa delle false dichiarazioni del pentito farlocco, Vincenzo Scarantino, che da Bo, Mattei e Ribaudo sarebbe stato forzato, istruito, orientato.
«I figli del dottor Borsellino – dice Mattei col suo inconfondibile accento romanesco, intatto dopo 41 anni trascorsi a Palermo – hanno ragione e hanno il nostro massimo rispetto. Però noi non abbiamo depistato niente. E capisco che nei nostri confronti i preconcetti e i pregiudizi sono difficili da smontare. Ma il processo li ha in gran parte smontati». Un processo anche ai morti, secondo i due imputati: Arnaldo La Barbera, ex superpoliziotto, e l’ex procuratore di Caltanissetta Gianni Tinebra. Ritenuto una sorta di regista il primo: molte ombre pure sul magistrato.
Ribaudo, accento palermitano che si può definire incarcato, marcato, è stato assolto: «Secondo i giudici – spiega, non senza coraggio – per me il fatto non costituisce reato. Io ero terminalista, facevo ricerche al computer ma, come il collega, andai là, da Scarantino, nella residenza di San Bartolomeo a Mare. Abbiamo fatto le stesse cose». Mattei, come il dirigente Mario Bo, ha ottenuto la prescrizione, dopo che è caduta una invero difficilmente sostenibile aggravante mafiosa: «So bene che mi lascia una macchia, finché non ci sarà l’assoluzione piena. Ma – ribadisce – io non ho depistato proprio niente. E mi batterò fino in fondo per dimostrarlo».
Loro, i pesci piccoli, sono nello studio dell’avvocato Giuseppe Seminara, che, con il collega Riccardo Lo Bue, li ha assistiti in questo lungo e complicato processo: «L’interpretazione del dispositivo e del significato della prescrizione – chiosa Seminara – è quanto mai opinabile, finché non ci sarà la motivazione della sentenza. Di fronte a una prova contraddittoria il giudice può pure dichiarare la prescrizione, lo dice la Cassazione a sezioni unite. E la prova era più che contraddittoria». Per Mattei c’era il dato materiale di appunti, post-it e promemoria, a corredo delle dichiarazioni di Scarantino: «Non ho mai negato di averli scritti io, che quella fosse la mia grafia. Ma non era un modo per istruirlo, per dettargli le false dichiarazioni». Nel rifugio di San Bartolomeo, il picciotto della Guadagna «era una furia, andava su e giù per la cucina – ricorda Mattei – era ossessionato non tanto dal processo quanto da quello che si diceva a contorno, in particolare che fosse gay. E dunque chiedeva tramite noi al suo avvocato, ad esempio, se potesse interloquire con altri avvocati che adombravano quella che per lui era un’onta superiore all’accusa di avere fatto la strage. Ma se fosse stato quello, il depistaggio, se fosse stata fatta una porcata, non sarebbero stati fatti sparire, quegli appunti? O sono intelligente o sono stupido: e se sono stupido lo fanno fare a me, il depistaggio?».
«Noi non abbiamo fatto le indagini – aggiunge Ribaudo – ma ci siamo limitati a fargli la scorta. Gli appunti venivano messi su sua richiesta, Scarantino aveva difficoltà a comprendere e a esprimersi e di me, più che del collega, si fidava, perché ero capace di tradurre il suo pensiero dal palermitano all’italiano e viceversa». Potrebbero apparire tesi minimaliste, così come quelle che tendono a escludere corresponsabilità dei magistrati inquirenti, contro cui si è scagliato l’avvocato Fabio Trizzino, legale dei Borsellino: le posizioni di Carmelo Petralia e Annamaria Palma sono state archiviate a Messina. Nino Di Matteo, più volte attaccato da Fiammetta Borsellino, non è stato nemmeno indagato.
«Io non ho praticamente mai parlato con La Barbera – ricorda Mattei – e non avevo titolo per farlo. Avevo un superiore gerarchico, non potevo scavalcarlo». Mattei ha una sua storia da investigatore, fu nella Squadra mobile di Ninni Cassarà, ha contribuito a inchiodare alle proprie responsabilità Ignazio D’Antone, ex dirigente della Mobile, scomparso di recente dopo avere scontato 10 anni per concorso esterno: «Il mio unico punto di riferimento in polizia era stato proprio il dottor Cassarà. La Barbera coordinava il gruppo investigativo Falcone Borsellino e io mi occupavo di riscontrare gli anonimi che arrivavano su Falcone. Il nostro – dice ancora Mattei – è stato anche un processo ai morti, La Barbera e Tinebra. Tutta la storia passa da loro due, paghiamo per i due imputati di fatto. Loro avrebbero potuto spiegare, da vivi: e forse il processo non si sarebbe fatto».
Inconfessabili intese con i mafiosi avrebbero indirizzato le indagini verso la cosca della Guadagna, salvando i Graviano di Brancaccio, aveva ipotizzato la Procura: ma a leggere il dispositivo della sentenza, che ha escluso l’aggravante di mafia, non ne emergono. E allora? Il colossale depistaggio servì per trovare un colpevole qualsiasi, chiunque fosse, purché subito? «Nelle inchieste – conclude Mattei – si cerca sempre il colpevole, non uno a caso. E comunque non chiedono al sovrintendente e all’agente scelto, di trovarlo. Io condivido le tesi dei pm del processo Borsellino quater. E cioè che in quegli anni dopo le stragi c’era un clima di piombo, con la pressione mediatica e dell’opinione pubblica che era quella che era. Le valutazioni potrebbero essere state forzate, ma in tutti gli ambiti: comprese la magistratura requirente e giudicante. Fino alla Cassazione».
GdS, 17/7/22
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