di PAOLO M. ALFIERI Inviato a Goma
Esther ha 16 anni e riesce per qualche minuto a trattenere l’emozione, mentre racconta la sua difficile storia personale.
È quando però un’amica sciorina la sua, inanellando le violenze subite, il disagio di sentirsi un peso per la propria famiglia, il rischio di finire sulla strada, che la 16enne scoppia in un pianto a dirotto, irrefrenabile, un pianto che sembra racchiudere quello di una comunità intera. Prima di loro, ex bambini di strada, 10-12 anni al massimo, oggi accolti dal Centro Don Bosco Ngangi e sostenuti da un progetto dell’Ong Vis, testimoniano difficoltà indicibili. Padri spesso inesistenti, madri con “troppi” figli a cui badare, il percorso verso la strada, le violenze, i furti, la droga.
Con il rischio di finire arruolati nei gruppi armati. Goma, Nord-Est del Congo, epicentro del conflitto più dimenticato al mondo, di una guerra decennale che ormai non è più solo quella delle milizie, dell’esercito, degli interessi delle multinazionali o dei Paesi vicini. È la guerra di tutti, della disgregazione sociale, di una povertà estrema – nonostante le enormi ricchezze del Paese – che finisce con il distruggere quotidianamente anche i rapporti familiari. È qui che il Papa sarebbe voluto venire nei giorni scorsi per portare il suo messaggio di riconciliazione e speranza, prima di dover rinviare il viaggio per motivi di salute. Nel frattempo, alle porte della città, si è tornati di nuovo a sparare. A una ventina di chilometri di distanza, lungo la strada in cui un anno fa restarono vittima di un agguato l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo, i miliziani filoruandesi del gruppo M23 e le forze armate congolesi si confrontano da marzo su un territorio impervio e dalla vegetazione fittissima. Il governo congolese accusa ormai apertamente il Ruanda e l’Uganda di sostenere le milizie. Ma è soprattutto con il governo di Kigali che la contesa è aperta, punto di arrivo di un’ostilità «antica» verso i ruandesi tutsi, sospettati di sfruttare le risorse della regione con il supporto delle multinazionali. Il sottosuolo di questa provincia, il Nord Kivu, è forse il più ricco al mondo: oro, cobalto, minerali di ogni genere compreso il coltan, indispensabile per i nostri smartphone. Una ricchezza diventata una maledizione. Oltre all’M23, i gruppi armati nella zona sono oltre un centinaio. «Le milizie hanno offerto la loro alleanza all’esercito contro l’M23, il nemico comune è il Ruanda – spiega un responsabile della sicurezza locale – . Il rischio è che aumenti l’arruolamento, e quindi che si ingrandisca il conflitto. L’M23 può contare su circa 1.500 uomini: non sono molti, è vero, ma hanno mezzi e competenza, oltre al sostegno di Ruanda e Uganda, per cui possono sopraffare l’esercito». A giugno l’M23 ha strappato all’esercito la località di Bunagana, strategica nel commercio transfrontaliero tra Congo e Uganda e le autorità del Nord Kivu hanno parlato di violazione dell’integrità territoriale da parte del Ruanda, che a sua volta accusa Kinshasa di sostenere le milizie hutu Fdlr.Il controllo delle risorse minerarie resta il vero motore del conflitto. «Di recente il governo congolese ha introdotto la tracciabilità delle esportazioni minerarie, le frodi sono diminuite – osserva una fonte – . Ma questo non fa il gioco del Ruanda e delle aziende straniere». L’instabilità nel Kivu si aggiunge peraltro a quella nel-l’Ituri, dove altri gruppi armati spadroneggiano sul territorio congolese, mentre nella zona di Beni colpiscono gli islamisti delle Forze democratiche alleate (Adf). Nelle città, la retorica del governo congolese contro Kigali ha già provocato raid e saccheggi contro la comunità ruandese sia nella capitale Kinshasa che qui nel nord-est: il presidente ruandese Paul Kagame è stato spesso ritratto con i baffi da Hitler. Per l’inviato Onu in Congo, Bintou Keita, c’è il rischio concreto di un conflitto incontrollabile. Mercoledì, nella capitale angolana Luanda, Kagame ha finalmente incontrato il presidente congolese Felix Tshisekedi, che ha chiesto l’esclusione dei soldati ruandesi da una forza regionale istituita ad aprile per combattere i gruppi armati nell’est del Congo. Alla fine dei colloqui, i due leader si sono detti d’accordo sulla cessazione delle ostilità, ma il portavoce dell’M3 ha già definito l’intesa «un’illusione». Ventiquattr’ore dopo, gli scontri erano già ripresi nella zona di Rutshuru.
Per le strade di Goma, quasi ovunque sterrate di pietra lavica, frutto delle disastrose eruzioni del vicino vulcano Nyiragongo, si prova comunque a vivere. Ai margini della carreggiata si vende di tutto, dal carbone alle schede telefoniche, così come i pochi frutti che la terra riesce a dare: qualche pomodoro, banane, verdure. Bambini di pochi anni tengono sulle spalle fratellini minori, ogni tanto li perdi nel mare di teste che li sovrasta, poi rispuntano spavaldi in un angolo. «Questa nuova guerra, purtroppo, è già qui tra noi, ma la popolazione è stanca di conflitti e invoca la pace», osserva il vescovo di Goma monsignor Willy Ngumbi, secondo il quale sia i militari che i gruppi armati sono responsabili di saccheggi nei villaggi e della fuga di centinaia di migliaia di persone, costrette a vivere nei campi profughi.
Qui a Goma e nei dintorni il conflitto finisce con aumentare anche l’insicurezza alimentare. In tutto il Congo gli sfollati hanno raggiunto quota 5,5 milioni: circa 2,2 milioni sono proprio nel nord-est, ma nel 2021 è stata raccolta solo la metà (876 milioni di dollari) dei fondi necessari ai loro bisogni. Proprio il Congo è non a caso in testa all’annuale graduatoria del Norwegian refugee council’s sulle crisi umanitarie. Nel quartiere di Ngangi, a Goma, il programma messo a punto dal Vis insieme ai salesiani è tra quelli che offrono ai giovani della città una speranza concreta, in mezzo al marasma quotidiano. I corsi di formazione per i ragazzi durano in genere nove mesi, «un tempo adatto – fa notare la responsabile Monica Corna, a Goma da 20 anni – perché ragazzi e ragazze possano riprendere in mano il proprio futuro e, allo stesso tempo, poter tornare a stare in famiglia».
Ci sono corsi di cucito, di parrucchieria, di cucina, a settembre ne inizierà uno di meccanica, grazie a fondi della Cei. Altre tre aule, invece, sono dedicate al recupero degli anni scolastici, in gran parte per bambini di strada, molti dei quali ora hanno la possibilità di dormire qui. «La violenza è la cosa più difficile, quando vivi per strada – dice Jospin, 12 anni –. Dovevamo mendicare, rubare, raccogliere rifiuti. Qualcuno più grande è andato anche a combattere. Non lo auguro a nessuno, ora voglio solo stare qui, studiare e trovare il mio percorso». Scende su Goma una sera sferzata dal vento, un manto scuro avvolge il lago Kivu, l’enorme massa d’acqua che fa da frontiera tra Congo e Ruanda, mentre un nuovo conflitto armato rischia di far deragliare i sogni di un’altra generazione.
avvenire.it, 10 luglio 2022
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