Ridotta a commemorazione inoffensiva, ormai è quasi un fastidio anche solo il suo essere evocata. E quanto avviene in Sicilia ne è la dimostrazione
La questione morale in Italia è morta. Seppellita dalla liturgia inoffensiva delle commemorazioni, ridotta a questione giudiziaria, considerata superflua come una porcellana di Capodimonte. Parlarne in una campagna elettorale (a Palermo, ad esempio) viene considerato un errore di ortografia, un andar fuori tema perché «ben altri» sono i nodi politici, le emergenze sociali, le miserie amministrative. Pretenderne una pubblica e pacata riflessione è un’ingenuità da anime candide: con gli eserciti in armi in Europa, il rischio di un impazzimento nucleare, il rapido declino delle riserve energetiche, lo spettro di nuove povertà sociali vogliamo davvero perder tempo a trastullarci con la questione morale?
Io la penso diversamente.
Nel senso che credo che lo spirito di un Paese sia anzitutto espressione della sua condizione morale, del senso comune prevalente, della misura di decenza civile che abbiamo conservato nei nostri comportamenti sociali. In questo senso la vicenda siciliana è paradigmatica. Le strizzate d’occhio di dirigenti del centrodestra ad alcuni condannati (in via definitiva) per reati di mafia svelano il segno di una pubblica ignavia, la sciatteria morale di chi vuol fare della politica solo ricerca esasperata del consenso, piegando a questa ricerca, a questo consenso, ogni principio di opportunità morale.Eppure, quelle strizzate d’occhio sono state lette con superficialità: come si permettono quei condannati per mafia a immaginare nuovi partiti, a proporre candidati ed alleanze? Un ragionamento un po’ rozzo, se mi è consentito: essere interdetti in via perpetua dai pubblici uffici vuol dire non poter più votare né candidarsi ad alcuna carica pubblica. La gogna, l’esilio, il pubblico ludibrio non sono pene accessorie previste dai nostri codici. Ed aver scontato interamente la propria condanna pretende, comunque, umano rispetto, non l’insulto.
Per cui, a mio giudizio non sono Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri (peraltro, in condizioni affatto assimilabili: l’uno colpevole di favoreggiamento e pubblicamente pentito; l’altro condannato per sodalizio mafioso e pubblicamente muto) ad aver offeso la questione morale. L’hanno fatto i loro illustrissimi frequentatori, coloro che andavano all’Hotel delle Palme per chiedere al senatore Dell’Utri la sua benedizione. Il presidente della Regione Siciliana Musumeci, in pellegrinaggio dal suddetto Dell’Utri per ottenere una intercessione telefonica con il Cavaliere, nei brevi minuti di quel siparietto palermitano ha rilegittimato politicamente un condannato in via definitiva per mafia, gli ha attribuito un ruolo politico, una capacità di intermediazione, un potere d’arbitrato.
Ma il gesto disinvolto del presidente Musumeci è parafrasi d’un pensiero diffuso: l’idea che in politica non vi sia più spazio per alcuna questione morale, a meno che non la reclamino i tribunali della repubblica a suon di sentenze. Tracciare la linea delle palme, per distinguere ciò che sta sotto da ciò che sta sopra, è tornato ad essere compito dei giudici. Non per loro vocazione ma per nostra rassegnazione. S’è ormai smarrita l’idea di un sentimento morale che non parli il linguaggio delle sentenze ma quello dei comportamenti, che interroghi i diritti e non i reati. Alla questione morale resta la consolazione di essere evocata nei trentennali e di prendersi un applauso in prestito prima di essere nuovamente riposta sotto vetro, in attesa della prossima celebrazione, del prossimo atto di dolore.
Come una porcellana.
Claudio Fava è presidente della Commissione regionale antimafia siciliana
L’Espresso, 6 giugno 2022
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