Maria Falcone
di Alessia Candito
Intervista alla sorella del giudice sui misteri della strage di Capaci: "Lo dicono i processi, non decisero pochi capimafia”
"L'anniversario tondo non fa differenza, forse però è il momento in cui è giusto tirare le somme". Sono passati trent'anni da quel pomeriggio del 23 maggio 1992 in cui Maria Falcone seppe che suo fratello, il giudice Giovanni, a Capaci aveva pagato con la vita la sua lotta alla mafia. Esecutori e mandanti sono stati arrestati e condannati, "ma adesso - dice la professoressa - è necessario fare un passo in più".
In che direzione?
"I processi ci hanno fatto capire che dietro la mafia c'era altro. Abbiamo il dovere di capire cosa abbia portato al depistaggio sulla strage di via D'Amelio.
Anche i processi adesso dicono che non può essere stata semplice iniziativa di singoli che avevano fretta di arrivare a una soluzione. In futuro forse dovremmo organizzare "una giornata della verità" su tutte le stragi della storia di questo Paese, perché sono troppi gli episodi di cui si conoscono gli esecutori ma non i mandanti".Quando pensa a suo fratello, qual è il primo ricordo che le viene in mente?
"Era l'8 o il 9 di quel maggio del '92. Stava andando via, poi si è fermato davanti alla porta e mi ha detto che non era rimasto molto tempo per combattere la mafia e che si stava rischiando tanto, perché era in gioco persino la democrazia. Lì per lì, non ho capito".
E poco dopo c'è stato l'attentato.
"Ma anche da morto Giovanni ha continuato a difendere il nostro Paese, suscitando l'indignazione della gente, provocando una reazione della società civile".
In famiglia eravate coscienti del rischio?
"Lo era anche lui. Dopo l'attentato all'Addaura, diceva spesso: "Adesso può succedere di tutto"".
Lei gli ha mai chiesto di fermarsi, di proteggersi?
"Non mi sarei mai permessa, in famiglia eravamo stati educati a non interferire nelle scelte altrui. A volte, magari scherzando, gli dicevo: "Ma ti vogliono da tutte le parti, non puoi andare un po' all'estero?"".
Da piccoli chi proteggeva chi?
"In realtà nessuno dei due. A volte ci azzuffavamo, ma solo di tanto in tanto".
Poi suo fratello ha iniziato la sua guerra.
"Lui non voleva combattere la mafia solo sul piano della repressione ma anche, se non soprattutto, su quello dell'accettazione sociale".
E oggi, per le elezioni comunali di Palermo, condannati per reati di mafia come Dell'Utri e Cuffaro sono tornati ad avere ruolo e peso.
"Mi chiedo perché si accettino sponsorizzazioni da parte di alcuni soggetti. Per tutto quello che si è fatto in questa città, spero che arrivi una risposta nelle urne. Adesso bisogna vedere se a Palermo esiste ancora il ventre molle di cui parlava Giovanni o se è veramente cambiata".
Appare quasi un paradosso nella città che ha insegnato all'Italia che la mafia si può combattere.
"Palermo ha dato tanto, ha sofferto, però non si è abbattuta, ha cercato di ribellarsi. Ma è un lavoro che non è finito e dobbiamo continuare".
Come?
"La repressione non basta, è necessario continuare a lottare sul piano culturale e dare risposte di sviluppo, per evitare che i giovani vadano via o diventino preda dei clan. Se Palermo, la Sicilia e il Sud verranno liberati dalle mafie, potranno essere volano di sviluppo per tutto il Paese. Non è impossibile. E questo è il messaggio di speranza che spero arrivi insieme a questo anniversario".
La Repubblica, 23 MAGGIO 2022
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