sabato, maggio 07, 2022

L'ORA, 8 MAGGIO 1992- 8 MAGGIO 2022. AMARCORD. NOI, CHE NON POTEMMO RACCONTARE "L'ATTENTATUNI"



di SANDRA RIZZA

Quello che ricordo è che era il giorno del mio compleanno e che compivo trent'anni. Che tirava aria di crisi, che era stata convocata un’assemblea straordinaria e che qualcuno del cdr lesse a sorpresa un comunicato devastante, annunciando la chiusura de L’Ora già fissata per la settimana successiva: l’8 maggio. Ma come? L’Ora non poteva morire.

Quello che ricordo è che la prima sensazione fu di incredulità. Che nella mia onnipotenza giovanile, pensai che mai e poi mai L’Ora, cuore pulsante di tutto ciò che c’era di più vivo a Palermo in quegli anni, avrebbe potuto cessare di esistere. Che il resoconto portato in assemblea era quello di una crisi gestionale senza sbocchi apparenti: tre direttori in tre anni (Tito Cortese, Anselmo Calaciura e Vincenzo Vasile), l’arrivo nel 1990 della Nem, la Nuova Editrice Meridionale, l’inutile tentativo di rilancio del giornale con nuovi computer e nuove tecnologie, la perdita progressiva di soldi e copie. Che pensai -caparbiamente- che quegli allarmi non erano una novità, che avevamo sempre lavorato in un clima di precarietà, che ce l’avevamo sempre fatta e che anche quella volta ce l’avremmo fatta. L’Ora non poteva morire.

Quello che ricordo è che l’ultima settimana ci travolse in un clima di allucinazione collettiva perché non c’è cosa più straniante di un giornale che sa di essere arrivato al capolinea, ma che deve essere pensato, scritto e sfornato ogni giorno, in un frenetico e concitato conto alla rovescia, fino alla data di chiusura, come se non ci fosse una data di chiusura. Che vennero a trovarci alcuni imprenditori, e qualcuno annunciò che avrebbero fatto una cordata: ci avrebbero pensato loro a salvare L’Ora. Che le giornate passavano in un alternarsi di momenti di sconforto e di speranze. L’Ora non poteva morire. 

Quello che ricordo è che l’8 maggio 1992 - inesorabilmente- L’Ora morì. Che quella sera, chiuso l’ultimo numero, andammo tutti a cena all’Hotel Patria, a festeggiare quello che era il funerale del giornale e della nostra giovinezza. Che qualcuno portò la copia fresca di stampa dove campeggiava un enorme titolo di apertura: ARRIVEDERCI, una beffa crudele che ci avrebbe perseguitato per sempre, anche se ancora non lo sapevamo. Che ridemmo e scherzammo come sempre, fingendo un’allegria stonata perché nessuno aveva il coraggio di manifestare la propria disillusione, e che alla fine di quell'ultima cena Marina Pino smise di ridere e andò a vomitare dentro un’aiuola. Che mi sembrò la conclusione più sincera di una serata che chiudeva un’epoca e che mai, mai avremmo potuto dimenticare. Se L’Ora non poteva morire, allora che stava succedendo?

Quello che ricordo è che non rimanemmo con le mani in mano. Che si fecero riunioni, si esplorarono possibili tentativi di salvataggio, si promossero incontri con sindaco, assessori, politici, e fanfaroni pieni di promesse farlocche. Che fu convocata al teatro Biondo un’assemblea cittadina a sostegno de L’Ora dove ci recammo con grandi fazzoletti davanti alla bocca e cartelli con la scritta: “Ci vogliono imbavagliare”. Che la platea era piena, che si fecero grandi discorsi, che ascoltammo parole di solidarietà, altre promesse e altre rassicurazioni. Che Gabriello Montemagno andò ospite persino al Maurizio Costanzo show e raccontò la chiusura de L’Ora, strappando applausi che mi sembrarono di commiserazione e mi fecero sentire ancora più derelitta. 

Quello che ricordo è che la consapevolezza arrivò poco a poco, nei giorni vuoti e allucinati che seguirono, in quelle settimane struggenti di maggio passate a capire ciò che era successo veramente: ero rimasta senza lavoro, senza i colleghi, senza il mio posto, senza la mia famiglia di elezione, senza il mio mondo. Era rimasta senza il “mio” giornale, in un niente fatto di silenzio, abbandono, indifferenza, l’indifferenza di una Palermo inerme e inerte, che stava per implodere nel buco nero dello stragismo. L’Ora poteva morire, eccome, anzi era già morto per sempre e non gliene fregava niente a nessuno.

Quello che ricordo, infine, è una specie di incubo: che arrivò quel 23 maggio squassato dall'esplosione di 400 chili di tritolo sull'autostrada di Capaci. Che alle sette di sera ci ritrovammo di nuovo tutti nello stanzone della cronaca di piazzetta Napoli con le facce stravolte e la voglia di riaprirlo a tutti i costi quel maledetto fantastico giornale. Ricordo la rabbia, la sensazione di impotenza, perché per la prima volta noi, la squadra di cronisti che di Giovanni Falcone aveva seguito e sostenuto l’impegno investigativo, si trovava nell'impossibilità di raccontarne la tragica fine nella strage che passò alla storia come “l’attentatuni”. Che ci furono giri di telefonate frenetiche per rianimare la rotativa ferma da soli 15 giorni e restituire ai lettori la testimonianza in diretta di un cambiamento epocale, come era chiaro a tutti noi che l’assassinio di Falcone stava determinando. 

Quello che ricordo è che si discusse di mandare in edicola un’ultima edizione straordinaria, ma alla fine non si fece nulla, perché la Nem (la società editoriale costituita d’intesa con la segreteria nazionale del Pds, proprietario della testata e degli impianti) non volle coprire le spese dell’iniziativa. E che l’editore, il partito di Achille Occhetto - con Walter Veltroni a capo della sezione stampa e Pietro Folena segretario regionale della Sicilia - non volle mai più riprendere le pubblicazioni. 

Quello che ricordo è un dolore assurdo, che non mi ha mai lasciato e che ancora, mentre scrivo, non smette di tormentarmi. E una domanda che mi ha sempre assillato e alla quale nessuno finora è stato in grado di rispondere: perché L’Ora viene silenziato alla vigilia del botto che spianò la strada alla nascita della Seconda Repubblica? Solo per la miopia editoriale del Pds che, dopo il crollo del muro di Berlino, contando sul proprio imminente protagonismo politico, ritenne di potersi sbarazzare dei piccoli giornali di partito, e li cancellò con ragioni di mera contabilità aziendale? O forse perché il quotidiano di Palermo era il testimone scomodo di tutti i passaggi che di lì a poco avrebbero portato alle stragi?

Quello che ricordo è che L’Ora fu una sentinella vigile non solo sulla mafia militare, ma soprattutto sulle deviazioni istituzionali che a partire dall'eccidio di Portella delle Ginestre hanno ammorbato la vita democratica del nostro Paese. Perché, dunque, il piccolo, agguerrito, formidabile giornale L’Ora poteva e doveva morire proprio in quella stagione? 

Una risposta l’ha data l’ultimo direttore, Vincenzo Vasile: “Ne sono sempre più convinto: abbiamo chiuso poco prima della strage di Capaci e l’inizio di una stagione che, forse, con quel giornale aperto sarebbe potuta andare diversamente”. Ed è una risposta ancora tutta da approfondire.

SANDRA RIZZA

(Questo l'ho scritto un anno fa, ma vale ancora).

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