L’INCONTRO PUBBLICO CON I CANDIDATI A SINDACO DI PALERMO all’Istituto Don Bosco Ranchibile, Palermo, 27 maggio 2022
di Corrado Lorefice
Arcivescovo di Palermo
Caro Ciro, Caro Fabrizio, Cara Francesca, Caro Franco, Cara Rita, Caro Roberto,
vi chiamo per nome stasera perché ci sono momenti della vita, quelli decisivi, in cui ci si sente chiamati per nome. Sono i momenti in cui la vita ci interpella, ci chiama a rispondere.
Ecco, per voi quello che state vivendo è un momento così. Vi chiamo per nome inoltre perché sono certo che anche voi state imparando a chiamare per nome ogni singola cittadina e ogni singolo cittadino della nostra Palermo, lungo le strade della città, dove cercate di incontrare tutti. Ogni palermitano, ogni palermitana deve sentirsi chiamato per nome da voi, deve sentirsi incontrato, coinvolto. Lo so: non siete in giro in cerca di voti, ma in cerca di persone. Persone singole, famiglie, gruppi che non considerate mai – così vi vedo – pacchetti di voti, ma bensì donne e uomini a cui raccontare la vostra Palermo, il vostro sogno di Palermo.
È vero: non si può fare il sindaco di una città come la nostra, non si può fare il sindaco di nessuna città, se non si ha un sogno dentro, se non si hanno idee frutto di fatica e di un pensiero condiviso magari con l’apporto di studiosi ed esperti amici con i quali, gratuitamente, delineare un programma, se non si ha a cuore la città nell’unica cifra della cura. In questo senso, ho preso come una pura indicazione generale i vostri più o meno brevi programmi di governo: lo so che devono diventare – diventeranno – prospettive concrete, proposte di soluzioni dei problemi, diagnosi e terapie mirate dei mali di Palermo, considerazione viva delle sue potenzialità e delle sue attese. Che tutti sentano e siano contagiati dal vostro sogno di Palermo per «rianimare il volto spirituale della città» (G. Dossetti). Sin da stasera e nei prossimi giorni saremo – noi tutti cittadini di Palermo – vigili, attenti, in ascolto!Quello che intendo offrirvi è solo una vicinanza e un incoraggiamento, una parola che vi possa aiutare a conoscerla, ad ascoltarla questa nostra città. Sono certo che, per quanto a lungo l’abbiate vissuta, dinanzi a una responsabilità come quella che vi dichiarate pronti ad assumere vi stiate rendendo conto di quanto sia ancora necessario discernere e interpretare i bisogni di Palermo. Per immaginarla sulla misura del tempo lungo, per capire quale sia il modello di convivenza civica che vogliamo consegnare alle prossime generazioni.
Scelgo di farlo, di darvi questo modesto contributo, parlandovi di quel che ho visto, sentito e condiviso nel corso del mio ‘viaggio’ di questi mesi nelle periferie urbane ed esistenziali della città. Un viaggio che ho voluto fare da cittadino e da visitatore di Palermo, a piedi, sul tram, entrando nelle case, negli esercizi commerciali, nei mercati, negli ospedali, nelle scuole, nelle parrocchie.
Ed è tenendo negli occhi e nel cuore il tesoro della ricchezza che ho incontrato, intrisa delle formidabili energie di accoglienza e creatività, di resistenza (resilienza) e solidarietà della nostra gente, che voglio condividere una riflessione generale. Eccola.
Le elezioni di giugno si terranno – il caso ha voluto (o forse non è un caso) – [si terranno dicevo] in una data simbolicamente baricentrica tra il 23 maggio e il 19 luglio. Palermo cioè è chiamata a scegliere il proprio futuro esattamente mentre ricorda agli altri e a sé stessa il significato del martirio di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo, di Antonio Montinaro, di Rocco Di Cillo e di Vito Schifani prima, e di Paolo Borsellino poi. Palermo è come chiamata a immaginare i prossimi trent’anni della propria storia facendo memoria dei trenta appena trascorsi.
Faccio riferimento non a una costellazione di episodi e ai loro anniversari. Mi riferisco alla storia di un popolo, di come è cambiato, di cosa ha imparato, di cosa ha voluto, di ciò che ancora oggi vuole, dell’impegno che adesso vi chiede perché non potremo mai dimenticare quale sia stato il prezzo che Palermo ha pagato, con il sangue dei suoi figli, per la dignità, per la libertà dalla paura, per il primato della giustizia. Vi sottopongo un allarme concreto, preoccupato, facendomi senza esitazione portavoce, ancora una volta, di quel che ho visto, sentito, toccato con mano.
Caro Ciro, Caro Fabrizio, Cara Francesca, Caro Franco, Cara Rita, Caro Roberto, lo sappiamo: è proprio ora, mentre Palermo è chiamata a scegliere, è ora che dobbiamo chiederci dove ancora si annida la mentalità mafiosa, dove la mafia cresce e opera, provando a farci pagare un altro prezzo, forse più subdolo ma non meno pericoloso. È il prezzo di una tirannia che vorrebbe tenere sotto scacco un popolo e una città. A questo tentativo, a questa mossa mortale per Palermo, noi tutti – io, voi, le palermitane e i palermitani – [noi tutti] diciamo in maniera forte e chiara: “No”. So che questo “no” vi appartiene, so che ognuno di voi lo sente dentro e che lo farà echeggiare nelle nostre piazze, nei prossimi giorni e nei prossimi anni, quali che siano le sue personali responsabilità di governo.
Ecco, la Palermo che ho conosciuto in un momento storico così delicato, quella che sta facendo i conti con le conseguenze di una ferita epocale come la pandemia (oggi aggravata dalla sua onda lunga sul sistema economico globale), è una città che porta i segni di forti squilibri urbani e sociali: siamo di fronte a una crisi economica del Comune senza precedenti, il divario delle disuguaglianze si allarga, si diffonde lo spettro di nuove povertà, si aprono nuove aree di vulnerabilità che richiedono la presenza certa e attenta delle istituzioni, una presenza pronta all’ascolto e attrezzata per l’intervento. Condividiamo voi ed io la consapevolezza che senza questa presenza delle Istituzioni e dello Stato altre strade torneranno ad aprirsi, verso nuove capillari penetrazioni del fenomeno mafioso, che sempre trova terreno fertile nelle aree di marginalità, nel degrado e nel disagio economico, nella povertà educativa e culturale, nella difficoltà per i giovani di trovare un lavoro e di immaginare un futuro.
Ho letto, nei vostri programmi, molti riferimenti al tema del decentramento. E mi sono ricordato della grande indagine sociale proposta da Giuseppe Dossetti nel Libro Bianco per le amministrative di Bologna. Era il 1956 e Dossetti teorizzava l’innovativa idea dei “quartieri organici”, centro costitutivo di tutti i servizi fondamentali e punto di riferimento primario per ogni cittadino. E scriveva lui per primo dell’importanza di un autentico decentramento, innanzitutto della partecipazione politica. Subito però precisava: «Ai rapporti di prestigio, alle relazioni formali e burocratiche spesso impersonali, deve sostituirsi una volontà comune di servizio nei confronti della popolazione dei quartieri, una serie di rapporti personali di stima e di fiducia reciproca, se non addirittura di amicizia».
Come non pensare a tal proposito anche alla “città-comunità” immaginata dal sindaco di Firenze, nostro conterraneo, Giorgio La Pira, al suo impegno per la costruzione dei rapporti solidali a partire dagli ultimi, alla sua incrollabile attenzione alla «povera gente» e alla sua ostinazione sui temi dell’ingiustizia sociale e della disoccupazione. «Quando Cristo mi giudicherà – scriveva La Pira riflettendo sul senso del suo ruolo di amministratore cristiano – io so di certo che Egli mi farà questa domanda unica (nella quale tutte le altre sono conglobate): come hai moltiplicato, a favore dei tuoi fratelli, i talenti privati e pubblici che ti ho affidato? Cosa hai fatto per sradicare dalla società nella quale ti ho posto come regolatore e dispensatore del bene comune la miseria dei tuoi fratelli?» (L’attesa della povera gente).
Ho citato due padri costituenti, due tra coloro a cui dobbiamo l’esplicita introduzione dei riferimenti alla dignità della persona e all’eguaglianza dei diritti nella nostra Carta costituzionale. Ma a Dossetti e a La Pira dobbiamo anche quell’idea di funzionamento dello Stato a cui oggi ci riferiamo parlando del principio di sussidiarietà: il ‘potere’ vicino ai cittadini. Il pubblico come spazio del servizio e dell’inclusione. Il sindaco come punto di irradiazione di un’idea di politica intesa quale coinvolgimento dei corpi intermedi della società civile: perché decentrare non vuol dire deresponsabilizzarsi ma condividere una responsabilità, una prossimità che rende l’altro protagonista della propria crescita e della propria liberazione.
C’è bisogno di responsabilità e di liberazione a Palermo. E la Chiesa è partecipe di questa ricerca e di questi processi, magari lenti, ma decisivi. Siamo in un tempo di estrema fragilità. Nel mio viaggio per le strade di Palermo ho percepito l’angoscia di tante famiglie monoreddito, piombate in un’improvvisa difficoltà che spesso porta allo smembramento e alla crisi irreversibile e, spesso, alla violenza omicida; dei lavoratori precari e di quelli in nero, che si sono ritrovati da un giorno all’altro senza tutele, ma anche di artigiani e liberi professionisti che hanno visto ridotte all’osso le proprie opportunità di lavoro. Di tante famiglie che sono state illuse con la promessa della “sistemazione”, del “lavoro leggero”, del “posto fisso”. Ho accolto il grido dei senza casa e di chi una casa non riesce più a mantenersela visto il costo dei servizi e delle utenze. Come Arcidiocesi conosciamo direttamente il fenomeno dell’occupazione degli immobili e da anni accogliamo diverse famiglie di senza casa facendoci carico perfino delle utenze e di tante altre necessità.
Ho visto con i miei occhi qual è stato l’impatto di questi due anni sugli anziani e sui disabili, ridotti a una solitudine senza via d’uscita, vittime di insufficienti garanzie di assistenza. Ho visto l’impatto della pandemia sui bambini e sugli adolescenti: sappiamo come proprio loro, privati di esperienze fondamentali della crescita, stiano correndo in questo frangente il rischio più grande. Aumentano i fenomeni di chiusura depressiva, fobica, inattiva, di assunzione di droghe devastanti – con la connessa piaga dello spaccio che coinvolge anche minori e famiglie –, dell’uso smodato di superalcolici. Ho toccato con mano non solo l’assenza di servizi ma anche la mancanza degli spazi comuni di bellezza e di socializzazione, indispensabili per favorire la nascita di iniziative dal basso per la cura dei quartieri e per l’aiuto reciproco tra le persone. Ho percorso strade dissestate e occupate da montagne di rifiuti. Ho visitato i nostri cimiteri dove i corpi dei nostri cari defunti non possono avere pronta e degna sepoltura. I nostri monumenti deturpati.
In giro per Palermo ho vissuto le contraddizioni di una città che sa essere aperta e accogliente ad ogni livello (i collaboratori dell’Ufficio diocesano per l’ecumenismo mi ricordano gli oltre 25 mila stranieri residenti a Palermo, appartenenti a 130 differenti etnie), ma spesso si ritrova senza strumenti per trasformare quest’accoglienza in integrazione e valorizzazione della cultura di provenienza (se non, ancora una volta, grazie a virtuose iniziative di alcune associazioni presenti sul territorio). Ho ascoltato il grido di tanti giovani che vorrebbero rimanere in Sicilia, studiare e lavorare a Palermo, non essere costretti ad andar via, e credono che non ci sia altra strada che partire, che qui da noi non ci sia speranza. Ho incrociato i giovani che con la scuola e la dimensione pubblica della vita hanno cominciato prestissimo a tagliare i ponti, sentendosi parte di un ‘altro mondo’ e di un ‘altro modo’ di vedere il mondo.
Ora, da tutto questo si esce assieme. Voi siete chiamati a essere i condottieri – lasciatemelo dire – i Mosè di un popolo che esce dall’Egitto, che continua il suo esodo verso una terra nuova, una Sicilia nuova, una Palermo nuova. Mosè non era bravo a parlare e non pensava di poter essere lui a guidare il popolo d’Israele. Dopo un empito iniziale si era ritirato nel suo privato, a vivere la sua vita, con la sua famiglia, il suo gregge. È lì che Dio lo ha intercettato, attirandolo nel roveto ardente, per mandarlo verso il suo popolo, per fargli sapere che Lui, il Signore, aveva ascoltato il grido di dolore che saliva dall’Egitto, che era tempo di ‘farsi popolo’ e di camminare verso la libertà, verso una terra in cui scorrevano latte e miele. È questa l’icona che vi consegno stasera. Potete vivere il ruolo che vi aspetta come il Faraone, ebbro di potere, duro di cuore, convinto di poter manovrare la storia a proprio vantaggio, signore degli schiavi. Ovvero potete pensarvi come Mosè, come un uomo fragile e senza sete di potere, che per il bene del popolo non sfugge alla chiamata e con tutta la sua fragilità, aiutato dal fratello Aronne, si sbraccia, insieme alle sue donne, ai suoi uomini, ai suoi bambini, per fare di una società di schiavi un popolo libero e padrone di sé. Un popolo che Dio sottrae alla marginalità e al dolore, un popolo pieno di futuro (cfr Es 2-4).
Sono questi i due fronti su cui dobbiamo lavorare, i due territori ideali che ho percorso in questi mesi e che condivido con voi. Il ‘territorio dei poveri’ e di tutti gli invisibili; il ‘territorio dei giovani’, delle giovani generazioni. Ho capito ancora più profondamente, camminando per Palermo, perché il Papa, durante la sua visita, nel 2018, scelse di fare essenzialmente questo: andare incontro ai poveri e andare incontro ai giovani. Ora mi rendo conto della valenza profetica della sua scelta. La fine della schiavitù e la speranza nel futuro sono gli orizzonti in cui siamo chiamati, in cui voi per primi siete chiamati a muovervi.
Papa Francesco ha scelto di venire a Palermo nella ricorrenza del XXV Anniversario dell’assassinio del Beato Martire don Pino Puglisi. E ha scelto di andare a Brancaccio, tra la gente dei quartieri, e di pranzare alla Missione di Speranza e Carità, per poi fermarsi a dialogare con i giovani in piazza Politeama (e non è superfluo, in questi giorni, ricordare anche la sua richiesta di una deviazione alla stele di Capaci, mentre si muoveva verso l’aeroporto). Il Papa ci ha indicato le strade della nostra città, lasciandoci il compito di continuare ad attraversarle: quel giorno ha ripetuto innumerevoli volte l’importanza del camminare, dell’andare a visitare. Nel piccolo libro Anch’io sono del Sud, pubblicato con gli atti di quella visita, siamo stati tutti d’accordo nell’isolare un fermo immagine: Papa Francesco che entra nella casa di don Puglisi e poi, qualche ora dopo, commenta nel suo discorso: «Nella sua stanza, la sedia dove studiava era rotta. Ma la sedia non era il centro della sua vita». Ce l’aveva con l’inefficacia di chi non cammina, di chi non va a visitare, di chi si ‘accomoda’, di chi non ha la gioia di uscire fuori. Ce l’aveva anche con la pigrizia del potere. Anche voi troverete una sedia, a Palazzo delle Aquile. Quello che vi auguro stasera è che la vostra sedia sia rotta e che voi non sentiate, lungo gli anni del vostro mandato, l’esigenza di ripararla, perché non sarà quello il centro della vostra vita istituzionale. Ma sin da ora vi invito a fondare su questo cammino la forza dei vostri programmi, la loro aderenza alla coscienza del presente e del futuro della nostra città.
Non smetterò mai di ribadire che la forza di ogni catena si misura sempredall’anello più debole. Che siano presenti nelle vostre discussioni e nelle vostre decisioni i volti dei poveri, dei bambini, dei più fragili. Il Vangelo affida ad ognuno di noi la creatività e la concretezza delle soluzioni ultime ma ci ricorda che ogni scelta deve essere compiuta guardando gli occhi dei bambini, dei poveri, dei fragili. Le scelte sulla città che non includono il loro dolore, le loro richieste – spesso silenziose, sempre drammatiche – saranno scelte di distruzione. Lo sappiamo: non ci si salva da soli, non si possono salvare solo i potenti e i forti. Non ci si salva aumentando il benessere di alcuni ma accrescendo il benessere di tutti. Il futuro si costruisce dentro la tensione verso il benessere di tutti. Proteggere gli interessi di una parte si rivela a lungo termine una scelta suicida.
Da queste prospettive prende forma la città che sogniamo e che vi impegnate a costruire. D’altronde, è proprio sull’idea che abbiamo della nostra città che si costruisce la nostra idea del mondo, il modo in cui lo abitiamo. A voi spetta innanzitutto questo compito: avere capacità di visione e di formazione civica.
Chiudo. In questi anni da Vescovo, a Palermo, ho conosciuto bene la grandezza di cuore e il fermento che sono l’anima di questa città. Perché Palermo è come un grembo, come un grande porto della storia. È come una terra in cui tutte le sostanze sono mescolate impensabilmente. Una terra dove il concime e i rifiuti tossici convivono e ribollono, dove i profumi del bene e gli effluvi inquinanti spirano allo stesso tempo. Eppure si sente che da questo bollore e da questo vento, da queste contraddizioni profonde, può nascere qualcosa di nuovo e di bello. Ecco, facciamoci insieme operatori e testimoni di questo parto. Facciamo nascere insieme, tutti insieme, la Palermo della vita, della gioia, della mano tesa a tutti, in primo luogo a quelle sorelle e a quei fratelli che dal mare giungono, in cerca di aiuto, in fuga dalla fame e dalla guerra che, in definitiva, anche noi europei e occidentali continuiamo a determinare. La Palermo della mano tesa a tutti coloro che cercano speranza, ai poveri, ai giovani che vorrebbero sentire la loro terra come una madre in grado di nutrirli e accompagnarli, che vorrebbero pensare il loro essere del Sud come una benedizione. Sono certo – ed è il sogno che infine stasera vi consegno – che Palermo possa davvero rivendicare un ruolo unico, di grande capitale del Sud e di baricentro geografico e culturale del Mediterraneo, culla millenaria della nostra Europa, esempio e guida nel disegnare ancora un orizzonte di accoglienza e di pace. La Palermo su cui – ne siamo certi – continuano a vegliare S. Rosalia e la schiera dei santi e dei martiri della fede e della giustizia palermitani.
Ufficio Diocesano per le Comunicazioni Sociali, 28/5/2022
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