Il teatro Massimo di Palermo
di MARIO DI CARO
Il buio, i gatti nelle sale le poltrone divelte e una missione che appariva impossibile. Ricostruiamo il percorso che 25 anni fa restituì il monumento
C’era buio al teatro Massimo nella sala senza più poltrone: un buio profondo che raccontava meglio dei vetri rotti delle finestre la vergogna di una chiusura che durava da oltre vent’anni. Era l’anno zero dell’utopia possibile di Leoluca Orlando, quella che voleva sfatare un mito tutto palermitano: riaprire il portone proibito del più maestoso monumento della città, sequestrato dal restauro infinito di quello che, come scoprì la magistratura, si rivelò un saccheggio di finanze pubbliche.
Venticinque anni fa, dunque, il gigante di pietra dormiva un sonno inquieto iniziato nel 1974 con un mesto “ Nabucco”, trasformato com’era in un cantiere senza sbocco. «Ricordo questo enorme portone che si aprì e che svelò un gigantesco cadavere: c’era questo buio antichissimo, però intuivo la voce del teatro all’interno, perché i suoni dei grandi spazi non si perdono», ricorda l’allora direttore artistico Marco Betta, oggi sovrintendente.
Non solo buio: nel Massimo ferito circolavano anche i gatti per le sale, tanti, e volavano uccelli che si infilavano dalle finestre rotte. «Era terribile — racconta Emilio Arcuri, l’assessore al Centro storico a cui fu affidata la missione della riapertura — poltrone accatastate, polvere, attrezzi di cantiere, buio, materiali edili, una situazione disastrosa».
Insomma, c’era una montagna da scalare anche perché il contesto si presentava come un campo di battaglia: c’era un’inchiesta penale in corso, c’era un contenzioso con l’impresa che sin lì aveva eseguito i lavori, la Sageco, c’era bisogno dell’avvocatura dello Stato. Il primo obiettivo del Comune era rientrare in possesso dell’edificio e riacquisirne la piena titolarità, ceduta qualche anno prima dallo stesso Orlando alla Regione. Iniziò una tempesta di fax al ministero dei Lavori pubblici e la selezione di una squadra di lavoratori invisibili quanto preziosi. Entrò in gioco, infatti, il gruppo di lavoro del Centro storico: quando al professor Gianni Pirrone, progettista del restauro infinito, fu revocato l’incarico, due tecnici tanto “oscuri” quanto stakanovisti diventarono direttori dei lavori, vincendo le resistenze di Palazzo delle Aquile che avrebbe preferito un’archistar: erano l’ingegnere Francesco Calamia e l’architetto Giovanni Crivello, due funzionari comunali che dal momento dell’incarico spostarono letteralmente il baricentro della loro vita dalla casa in cui abitavano al teatro. «Mai scelta fu più indovinata» , ribadisce orgoglioso Arcuri, che alla mamma aveva promesso di riportarla, un giorno, nel teatro riaperto. E subito vennero fuori le magagne: lo stato dei luoghi non corrispondeva al progetto, i rilievi non erano stati effettuati, mancava il progetto esecutivo. E in più buona parte delle poltrone, quelle originali di Basile, furono ritrovate in un’aula magna dell’Università. Venne potenziato il gruppo di progettazione, si scelse un’impresa per i rilievi, dodici professionisti che si trasferirono a Palermo per due mesi con apparecchiature mostruose, si assoldarono altri esperti “invisibili” per risolvere il contenzioso con l’impresa. Si cominciò a creare, insomma, il contesto adatto per portare a casa il colpaccio.
Forse, quella era la Palermo giusta nel momento giusto. «Sicuramente era maturata la consapevolezza della vergogna del teatro Massimo chiuso — dice Leoluca Orlando sindaco di ieri e di oggi — l’amministrazione svolse una funzione storicamente importante, per un’azione di denuncia per la chiusura e contemporaneamente di azione per la riapertura. E questo creò un movimento di condivisione della città. Il Massimo era rimasto chiuso in un tempo in cui Palermo era chiusa, si chiudeva tutto e diventava “normale” chiudere anche questa straordinario punto di riferimento della vita culturale e artistica. La città si chiudeva in sé stessa, il centro storico era chiuso, sbarrato nei suoi vicoli nei suoi palazzi, la mafia governava e quindi la riapertura del teatro Massimo è stato un cambio di cifra di visione della vita».
Il primo segnale della fortezza espugnata fu lo smantellamento del lamierino che ricopriva la cancellata, poi fu “liberato” il foyer. «Quando la luce entrò nel foyer fu il segnale che saremmo riusciti a riaprirlo — racconta ancora Betta — Fu come entrare in un enorme strumento musicale, un gigantesco violino».
Che la città si lasciò coinvolgere lo testimoniò la rottura di un altro argine, solitamente solido a Palermo: l’apparizione degli sponsor. Il primo a salire a bordo fu il Banco di Sicilia, che si scelse un’impresa per restaurare le poltrone e ignifugarle, e da quel momento fu una corsa a mettere idealmente il proprio logo nel teatro. A questo punto entrò in scena un altro motore della riapertura, Ferruccio Barbera, il mago degli sponsor. Barbera, pubblicitario brillante e con ottime conoscenze, era consulente per l’immagine del Comune e Arcuri lo chiamò alla corte del Massimo.
«Ferruccio era molto preso da quest’impresa, ne era orgoglioso — racconta il fratello, Giuseppe Barbera — Ricordo quante volte condusse il figlio a vedere il lavoro fatto, portò me il giorno prima dell’inaugurazione a vedere gli ultimi momenti del cantiere. Era la sua grande soddisfazione essere utile alla città: Ferruccio ha vissuto l’emozione di essere utile alla città così come lo fu papà per il calcio, è stato sicuramente contagiato in questo da nostro padre».
Morale: si fecero vivi sponsor da tutta Italia, tutti volevano sapere qual era il regolamento: «ma il regolamento era una stretta di mano» . Barbera entrò in sintonia col gruppo di lavoro che viveva barricato in teatro: alla fine erano 440 persone a lavorare, ognuno con una casacca contraddistinta da una lettera dell’alfabeto che indicava il settore di appartenenza. «In quella corsa contro il tempo io ero terrorizzato per un incidente sul lavoro», confessa Arcuri. Ma, spiega Betta, «dopo la presa del foyer fu un cantiere allegro: c’erano le prove di coro e orchestra, c’era questo gigante addormentato che si risvegliava».
Già, le prove. Il primo giorno del ritorno a casa dopo ventitré anni, Barbera fece appendere in sala uno striscione, “Bentornati coro e orchestra”, e come d’incanto si calmò la maretta sulle condizioni difficili di lavoro. «C’era un freddo tale che dalla bocca usciva la nuvoletta del fiato — ricorda Maria Randazzo, soprano del coro — perché il teatro rimasto chiuso non aveva calore, tanto che dietro le quinte avevamo le giacche per riscaldarci nei momenti di pausa». «I palchi erano al buio, ma mi colpì quell’oro, quella grandezza, tutti quegli ordini di palchi, al Politeama ce n’erano solo due — racconta Rosalba Mongiovì, anche lei soprano del coro — Eravamo abituati alle dimensioni del Politeama che in confronto è un buco, in questa grandezza ci perdevamo» . «Fu come tornare a casa perché io venivo qui da spettatore da piccolo — dice il violino di spalla Salvo Greco — Ricordo che eravamo tutti eccitati: ritornare al teatro Massimo era come andare alla Mecca» . Insomma, l’entusiasmo era a mille: «Eravamo impegnati full time tutti quanti per ottenere il risultato perché la riapertura era una vittoria per Palermo», testimonia Bruno Ciulli, il mago delle luci di scena.
C’era ancora un’incognita: Forza Italia annunciò una visita- ispezione del temutissimo Vittorio Sgarbi, ma alla fine andò tutto liscio. E c’era la visita dell’ingegnere del suono tedesco dei Berliner Philarmoniker, chiamati a suonare dopo l’orchestra del Teatro, che strappò un foglio di carta in palcoscenico per valutare il ritorno del suono: tutto ok, ma ci volle una camera acustica. E allora, che la festa cominci. E si vola alto. «Andammo a Berlino — racconta Orlando — e Claudio Abbado, direttore dei Berliner Philarmoniker, diede la sua adesione che si sarebbe rivelata entusiasta. In conferenza stampa disse: “Sono contento perché mia madre era palermitana”. Io gli chiesi: “Ma perché l’hai detto solo adesso di tua madre? Perché solo adesso sono orgoglioso di avere una madre palermitana”».
«Io ricordo l’espressione di Abbado quando entrò nella sala — dice Giovanni Mazzara, allora direttore di produzione — la faccia era un “oh” di meraviglia, perché si aspettava un teatro in ristrutturazione».
È il 12 maggio 1997: il teatro non può ancora ospitare opere, è fatalmente incompleto, mancano i piani mobili come osserva un gruppo di intellettuali, ma vivaddio sul palcoscenico risuona il coro del “Nabucco”, lo stesso dell’ultimo spettacolo di 23 anni prima.
Venticinque anni dopo la festa si ripete, il prossimo 12 maggio con il concerto di Michele Mariotti, ma stavolta le ombre del deficit rischiano di guastarla.
La Repubblica Palermo, 6/5/2022
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