Sherin Abu Akleh |
ALBERTO STABILE
Adesso tutti sanno del lavoro prezioso che Sherin Abu Akleh svolgeva da quasi 25 anni per Al Jazeera, la Tv panaraba che si è spesso intestata le battaglie degli ultimi, dei sommersi e dei dimenticati, grazie anche ad una proprietà basata nel Qatar, emirato ricchissimo ma non allineato con gli interessi dominanti nella regione mediorientale raccolti intorno all'asse Arabia Saudita-Israele. In cosa è consistita la missione brillantemente e tragicamente portata a termine da Sherin, l'ho trovato riassunto in uno dei tanti commenti di queste ore: “Il mondo arabo non voleva più sentire le sofferenze dei palestinesi, Sherin ha riportato la Palestina nel mondo arabo. Ecco perché è stata uccisa”.
E' stato un compito svolto, specialmente negli ultimi anni, in quasi completa solitudine. Basta vedere la compagnia con cui si è ritrovata Sherin all'alba del suo ultimo giorno di vita, alla rotonda del monumento ai martiri di Jenin, vale a dire alle porte della città considerata dai servizi di sicurezza israeliani una “fabbrica di terroristi” e dai palestinesi un simbolo indomabile della resistenza all'occupazione militare.
Jenin era tornata nel mirino delle forze d'Occupazione, dopo la serie di attentati che ha scosso Israele dal 22 Marzo: alcuni attribuiti a cellule dell'Isis misteriosamente sorte negli ambienti islamisti della società arabo-israeliana, altri a lupi solitari con un passato militante, altri ancora messi in atto in risposta agli incidenti riesplosi a Gerusalemme, durante il mese sacro del Ramadan dentro e intorno ai luoghi santi e contesi tra arabi e israeliani. Sta di fatto che tre di questi attentatori provenivano da Jenin e la città è subito ripiombata nel clima di guerra che aveva già conosciuto nell'aprile di vent'anni fa, quando venne investita dall'ondata repressiva scatenata da Ariel Sharon per porre fine alla Seconda Intifada esplosa nei Territori anche a causa del suo sprezzante ultra nazionalismo.
Non che l'IDF, attentatori e terroristi a parte, abbia deciso di usare i guanti di velluto con quella che Yasser Arafat aveva definito la città-martire della Palestina. Il mese scorso, nella stessa Jenin, una studentessa palestinese di 19 anni, Hanan Khadour, è stata inspiegabilmente uccisa da un pallottola israeliana mentre viaggiava diretta a casa in un taxi pieno di donne palestinesi. Invano, la famiglia ha chiesto giustizia. Ma le voci ricorrenti martedì scorso parlavano di un'imminente operazione in grande stile. Per questo, Sherin, s'era precipitata alla rotonda con un operatore, la telecamera e un pugno di colleghi più giovani di lei, tutti equipaggiati con giubbotti antiproiettile con ben evidenziata la scritta PRESS e gli elmetti gli israeliani li hanno visti a relativa distanza ma non hanno intimato loro di fermarsi o tornare indietro.
Un filmato messo in onda da Al Jazeera mostra una di questi giornalisti, Shata Hanaysha, cronista di una Tv locale, mentre, protetta dal tronco di un albero, ad un metro di distanza dal corpo senza vita di Sherin, chiede aiuto e si dispera, ma non può neanche allungare la mano oltre l'albero per sentire il polso di Sherin, perché chi ha già ucciso Sherin con un colpo di rara precisione alla gola, l'unica zona vitale scoperta tra il giubbotto anti proiettile e l'elmetto, continua a sparare, colpi secchi, precisi, cadenzati per impedire che venga soccorsa.
Shata sarà aiutata a mettersi in salvo da un giovane del vicino campo profughi e ricostruirà le fasi essenziali del dramma, compresa l'ostinazione dello sparatore che ha ucciso Sherin e ferito Ali Sammoudi, il cameraman di Al Jazeera colpito non gravemente alla schiena, a cercare di uccidere anche lei. Ma parlerà anche diffusamente dell'ammirazione che aveva nutrito sin da piccola per la corrispondente di al Jazeera che ogni sera vedeva alla Tv assieme alla famiglia e di come il suo sogno fosse di seguirne le orme e di quando, adolescente, a richiesta dei famigliari, cercasse di imitarla negli stand up chiari e pacati con cui Sherine spiegava ai telespettatori quello che stavano vedendo.
Ma dov'erano, ci sarebbe da chiedersi, gli altri giornalisti occidentali che affollano, a centinaia, perché Israele conta molto nella geopolitica dell'informazione, gli uffici di corrispondenza di Gerusalemme e Tel Aviv? A parte quel manipolo di giovani cronisti palestinesi non c'era nessuno altro a seguire l'irruzione dell'esercito israeliano al campo profughi di Jenin. Come mai?
Perché, ci si ripete spesso in questi ultimi anni, il conflitto più vecchio non soltanto del Levante ma forse del mondo, con i suoi 75 anni di durata, per limitarsi allo scontro cominciato con la proclamazione dello Stato d'Israele, il 14 Maggio del 1948, e senza considerare gli attriti pregressi tra coloni sionisti e residenti palestinesi in Terra Santa risalenti all'inizio del '900, non fa più notizia. In altri termini: i morti ci sono, 42 palestinesi dall'inizio dell'anno e 18 israeliani, centinaia di migliaia di profughi delle guerre del ‘48 e del ‘67 continuano a morire di nostalgia nei loro campi di dolore, la stessa Sherin proveniente da una famiglia cristiana di Betlemme, era stata suo modo rifugiata negli Stati Uniti di cui aveva avuto la fortuna di ricevere la cittadinanza, la violenza tra i due popoli continua a esplodere ora per un motivo ora per l'altro del lungo contenzioso che da storico-politico è scaduto a insanabile odio tra due popoli, ma tutto questo non farebbe più notizia.
Come se fosse il Cielo, o misteriose congiunture astrali e non gli uomini dietro ai computer e nelle centrali che dettano gli indirizzi della comunicazione globale a decidere quello che fa o non fa notizia; quello che va pompato anche senza riscontro e controlli incrociati (come succede con la maggior parte delle notizie provenienti dall'Ucraina) e quello che va cassato dal “timone” di giornata dei capi redattori, in attesa che venga rimosso dalla memoria collettiva, come sta succedendo al conflitto tra palestinesi e israeliani al volgere del suo settantacinquesimo anno di vita.
Ma non è soltanto per la “stanchezza” manifestatasi in seguito al deludente, tragico e tuttavia parziale fallimento degli accordi di Oslo e del processo di Pace in generale che l'attenzione dei grandi media sulla questione palestinese è scemata fino a scomparire quasi del tutto. Qui c'è stato un ordine esplicito del Dipartimento di Stato, sotto la gestione di Mike Pompeo e dunque regnando Donal Trump sul trono americano ad pretendere una nuova rappresentazione del conflitto tutta confinata nella sua dimensione economicistica e totalmente privata della sua ratio storico-politica, cominciando con la cancellazione delle parole Occupazione e Territori Occupati, per sostituirle scioccamente con “presenza israeliana” o “interesse israeliano”. Così come è stata cancellata con un tratto di penna la questione sulla sovranità di Gerusalemme, salvo contare a ogni Ramadan i morti e i feriti provocati dagli incidenti alla Spianata delle Moschee, di cui l'estrema destra israeliana rivendica l'appartenenza.
Così, mentre si celebrano gli Accordi di Abramo come il mezzo più idoneo a risolvere il conflitto arabo israeliano senza discuterlo e senza offrire soluzione ai problemi che lo hanno determinato, a cominciare dalla rivendicazione nazionale palestinese, ma imponendo ai contraenti (Israele, Emirati, Bahrein e presto Arabia Saudita, Sudan e Marocco tutti allegramente riuniti sotto l’ombrello di Washington) la cinica formula “Pace in cambio di tecnologie militari”, una delle poche giornaliste che ancora cercava di far emergere l'umanità e la verità di una guerra che persiste nonostante tutto e tutti né è stata martirizzata.
Alberto Stabile
(Da Facebook)
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