Il regista Giuseppe Tornatore
di Gian Mauro Costa
«Il significato del Primo maggio? È valido ancora. Anzi, oggi, in tempi così difficili, è una bussola per non smarrirsi».
Sorride Giuseppe Tornatore, il picciotto di Bagheria diventato regista da Oscar senza perdere la tenerezza, lo stupore, l’entusiasmo, la luminosità. E soprattutto la memoria.
La memoria è stata la nutrice, poi la compagna assillante di tutta la tua poetica cinematografica…
“Quanti ricordi, da ragazzo, legati a Portella della Ginestra! Chi si trovava lì sapeva che il Primo maggio, in quella spianata, era diverso che altrove. Ascoltavo Ignazio Buttitta recitare le sue poesie, ascoltavo i racconti dei reduci, dei familiari delle vittime. Si respirava la Storia, si avvertiva sulla pelle il senso di appartenenza a un popolo, ai suoi valori. Quante foto ho scattato… le conservo tutte».
Questa necessità insopprimibile della raccolta, della battaglia contro l’oblio, della consapevolezza che nel racconto orale -quello più soggetto all’offensiva del tempo- ci siano annidati insegnamenti fondamentali per potere vivere un’esistenza dignitosa, è stata il tuo impegno assiduo, tenace. Oltre ai tuoi film, ne è ulteriore prova un volume di 500 pagine, “All’èpica”, da qualche giorno in libreria.
Uno zibaldone di interviste, interventi, testimonianze che, a partire dalla seconda guerra mondiale, ricostruiscono la storia del Partito comunista in Sicilia…
Sorride Giuseppe Tornatore, il regista che ha saputo riportare sul grande schermo, per intero, il sogno del cinema, i sentimenti radicati nell’infanzia, la dolce disillusione dell’età matura: «Che vuoi, facciamo sempre la stessa cosa», si schermisce. «“All’èpica” è frutto di un lavoro appassionato e caotico durato a lungo. La mia intenzione iniziale era quella di arrivare a un copione, a un film. Bello, ma ci sono troppe bandiere rosse, mi disse il produttore. E non se ne fece niente. Adesso, è un libro».
Il titolo è il risultato linguistico finale della distorsione fonetica siciliana dell’espressione “all’epoca”.
«Sì, mi è piaciuto perché c’è un rimando diretto a una stagione epica, appunto. Ma la cosa sorprendente è che, nei protagonisti e nei loro resoconti, non ho mai avvertito traccia di questa eccezionalità. Loro quasi minimizzavano, non pensavano di aver partecipato a momenti straordinari. Ci voleva un osservatore esterno per far emergere l’importanza di quei vissuti».
Sorride Giuseppe Tornatore, che da un florilegio di voci ha tirato fuori il copione di un grande film che non sarà mai realizzato. Così come con il suo “Ennio”, il commosso omaggio al maestro Morricone ancora nelle sale cinematografiche, ha scritto, con le immagini e con la musica, il romanzo dell’Italia dal dopoguerra ad oggi. Un romanzo nel quale il Pci è stato tra gli indiscussi protagonisti.
Ma ha ancora senso, oggi, definirsi comunisti?
Sorride Giuseppe Tornatore, che nella sua Bagheria è cresciuto in una famiglia di sindacalisti, di persone appassionate alla politica. Ma è un sorriso amaro, stavolta: «Una politica che era fatta di valori, di solidarietà, di spirito collettivo, e che adesso non c’è più. Dirsi comunisti? Perché no? Il Pci è stato cosa ben diversa dal comunismo reale. I personaggi che ho incontrato avevano anche allora la consapevolezza della loro diversità, della loro distanza dall’esperienza dell’Unione sovietica».
Torniamo a Portella della Ginestra. Nel primo intervento del libro, quello dello storico Francesco Renda, viene riportata la tesi che il Primo maggio 1947 si ruppe quel patto costituzionale tra Dc, Pci e Psi sul quale si era fondata la Repubblica. I democristiani si rifiutarono di sottoscrivere il documento con cui si indicava nella mafia le responsabilità della strage.
Ma perché il regista che ha esordito con “Il camorrista”, il ritratto del boss Raffaele Cutolo, non ha realizzato un film su Cosa nostra?
«Non è del tutto vero. In “Baarìa” di mafia si parla, e più volte. Ma ammetto che non ho ancora fatto un film in cui il tema sia centrale. Ci ho pensato più volte, però. E non è escluso che esca fuori. Se fossi nato trent’anni prima non avrei avuto dubbi sul voler fare un film come “Il giorno della civetta”. La difficoltà, oggi, è legata al fatto che il cinema sulla mafia è diventato un genere. E dunque sento il bisogno di una nuova formula attraverso cui esprimermi».
Nuove formule. Sei sempre stato tanto legato alla memoria quanto attento a tutto quello che di innovativo la tecnologia potesse offrirti…
«Trascorrevo ore nella cabina di proiezione a memorizzare gesto dopo gesto l’attività dell’operatore, l’uomo che mi ha ispirato la figura di Alfredo in “Nuovo cinema Paradiso”.
Poi l’ho fatto anche io il proiezionista, ed è stato tra i mestieri più belli della mia vita. La lezione che ho imparato da bambino me la diede proprio quell’uomo che mi ha istruito.
Ricordati, mi diceva, il film può essere bello o brutto. Ma la proiezione deve essere sempre perfetta».
Non solo la proiezione, anche la realizzazione, la produzione dei tuoi film. Ecco perché quando da ragazzo eri alle prese con il super-8 e i suoi mezzi limitati, sei stato costretto a inventarti gli strumenti che ti servivano, come una prodigiosa moviola sonora che allora non esisteva. Ecco perché quando ancora oggi giri sei ossessionato dal perfezionismo tecnico.
Una meticolosità che non ha mai però imprigionato il tuo linguaggio cinematografico, anzi ne è diventata cifra espressiva. Una macchina narrativa possente con cui hai regalato emozioni, coinvolgimenti pieni.
Sorride Giuseppe Tornatore che non si è fatto ammaliare, da ragazzo, dalle sirene dello sperimentalismo dilagante sull’onda del ’68 e dall’aria di sufficienza di chi criticava ogni concessione ai sentimentalismi.
«Sono stato innanzitutto uno spettatore. Uno come tanti, in sala. E non l’ho mai dimenticato. Ma anche io ho fatto un film, diciamo, anomalo. Dove non c’è alcun riferimento alla realtà, un film per alcuni criptico, che sapevo bene che non avrebbe fatto grandi incassi. Si tratta di “Una pura formalità”, con Roman Polanski e Gerard Depardieu. E ci sono riuscito, lo rivelo, grazie a un credito che avevo presso il produttore. Il patto è stato: io accetto il tuo budget limitato ma faccio il film che voglio. Anzi, te lo porto già bello e montato».
Ma non avverti il pericolo che piattaforme e home theater possano segnare la fine del grande schermo?
«Il cinema non morirà mai, non si spegnerà mai la necessità di qualcuno che racconti, di qualcuno che ascolti. Lo so da quando seguivo, incantato, i racconti degli anziani. Il rischio magari può esserci per le sale cinematografiche. Per questo occorre valorizzarne la funzione culturale e la capienza.
Oggi può capitare che il salotto di un amico sia più grande di una saletta da 40 posti».
Quale sarà il tuo prossimo film allora? Quale il tuo prossimo, come dici tu, esordio?
Sorride Giuseppe Tornatore: «Sì, è vero, ogni volta che comincio un film mi sento di ricominciare daccapo. Sono rimasto un artigiano e la troppa sicurezza è una cattiva compagna. Meglio trepidare, nutrire dubbi. Non posso parlare del mio nuovo film, è prematuro. Dico soltanto che lo girerò in angoli molto, molto lontani, dove non c’è neanche la connessione internet. Ci sono già stato, ci tornerò ancora».
Prima di lasciarci, spazio ancora una volta ai ricordi, ai tuoi veri esordi, quando per noi amici eri Peppuccio. Ti rammenti quella volta che andammo insieme, giovanissimi, in un’agenzia pubblicitaria per mostrare i nostri super-8? Tu portasti una bellissima sequenza sulla lavorazione della ricotta…
«Sì, lo ricordo benissimo. Ci cacciarono fuori».
Sorride Giuseppe Tornatore. Anzi ride, stavolta, Peppuccio.
La Repubblica Palermo, 1 maggio 2022
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