Repubblica della memoria a Foro italico di Palermo
di FABRIZIO LENTINI
C’è un passaggio apparentemente incongruo, e invece centrale, nell’intervista che Roberto Lagalla ha rilasciato ieri alGiornale di Sicilia per gridare al «gioco al massacro» nei suoi confronti. È quello in cui il candidato sindaco del centrodestra, polemizzando con Pif che lo ha attaccato dal palco della “Repubblica della memoria” per non aver preso le distanze dal condannato Cuffaro, ricorda al regista un legame familiare: «Il signor Pif, poi, mi conosce molto bene, perché i suoi zii erano i più cari amici di mio padre e mia madre». Una frase il cui significato va ben oltre il significante. Ed è, più o meno: apparteniamo allo stesso mondo, ci riconosciamo, abbiamo frequentato le stesse scuole e gli stessi salotti, passeggiato nelle stesse strade, salutato gli stessi amici, forse votato gli stessi personaggi. E oggi tu, figlio del mio stesso mondo, mi fai la morale?
L’argomento è un cardine del conservatorismo di ogni epoca. Tanto più una società sarà ordinata quanto più i figli saranno tali e quali ai padri. Le uniche rivoluzioni possibili sono quelle dei Tancredi Falconeri capaci di adeguarsi con prontezza ai tempi nuovi cambiando tutto perché tutto rimanga com’è.A Palermo però, da una trentina d’anni, è diverso.
Diverso perché questo mantra conservatore è saltato in aria insieme con l’autobomba che uccise il giudice Rocco Chinnici e altri tre innocenti devastando via Pipitone Federico. È stato bucherellato con il palazzo di via Croce rossa crivellato dai proiettili di Kalashnikov che mandarono all’altro mondo il vicequestore Ninni Cassarà e l’agente Antiochia. Si è polverizzato con le vetrate dei palazzi di via D’Amelio investiti dal big bang che spezzò le vite di Paolo Borsellino e di cinque poliziotti. Strade eleganti, condomini ben arredati, terrazze middle class. Fu allora che i figli della Palermo borghese che per decenni aveva pensato che i mafiosi si ammazzavano tra di loro presero coscienza che quella era una guerra dichiarata contro di loro, contro la loro vita, contro il loro futuro. E scesero in piazza, trasformando la paura in coraggio, il nerofumo delle bruciature nel bianco candido dei lenzuoli. Gridando il loro no anche in faccia ai padri che avevano taciuto per troppo tempo: per viltà o per quieto vivere. Ecco quel che lo stupore bilioso di questi giorni di Lagalla, di fronte a chi gli chiede conto delle sue alleanze pericolose, nasconde: la mancata presa di coscienza del fatto che Palermo non è ancora una città normale.
Che è una terra le cui cicatrici ancora dolgono. Una terra in cui c’è ancora un disperato bisogno che i figli, evangelicamente, si separino dai padri. Che la spada dell’intransigenza separi gli onesti dai disonesti, gli avversari della mafia dai collusi e dagli indifferenti. Come seppero fare, pagando un prezzo pesante, Piersanti Mattarella o Peppino Impastato, Paolo Giaccone cui è intestato il Policlinico universitario o Giuseppe Insalaco che «si era calato — scrisse Sciascia — nel piacere dell’onestà».
Questo, Maria Falcone, Pif e il pubblico di “Repubblica della memoria” che domenica ha applaudito le loro parole, posate o veementi che fossero, chiedono a Lagalla. Che si separi, se può e ne è capace, da padri politici e fratelli di potere. Anche se questo richiede di pagare subito un prezzo in termini di voti o di equilibri. Perché comunque, se rinuncia a pagarlo adesso, il conto che un giorno gli presenteranno padri e fratelli potrebbe rivelarsi ben più salato.
La Repubblica Palermo, 25/5/2022
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