sabato, aprile 16, 2022

Franco Zecchin: "Io e Letizia, diciotto anni insieme, fra mattanze e minacce della mafia. Ci aiutavano Giuliano e Falcone"


di SALVO PALAZZOLO

L'intervista al reporter compagno di vita della fotografa morta mercoledì scorso. "Aveva un amore viscerale per la Sicilia"

«Il 5 marzo l’avevo chiamata per farle gli auguri di compleanno — racconta Franco Zecchin, al telefono da Marsiglia — Letizia era una forza della natura: nonostante la malattia l’avesse debilitata, continuava a fare progetti. Non so dove trovasse tanta energia. Di sicuro, il suo amore per Palermo era viscerale. Quante cose abbiamo fatto insieme». Fa una pausa e dice: «Mi sarebbe piaciuto essere oggi in Sicilia, per darle l’ultimo saluto, ma non ho trovato la coincidenza giusta con gli aerei. Ma verrò presto per ricordare Letizia». Franco Zecchin e Letizia Battaglia sono stati compagni di vita e di lavoro per 18 anni. Dal 1975 al 1993. 

«Abbiamo fotografato insieme gli omicidi eccellenti, lei da una parte, io dall’altra. Così è stato per i delitti di Piersanti Mattarella e del procuratore Gaetano Costa».

Quando ha conosciuto Letizia Battaglia?

«Nel 1974, a Mirano. Eravamo fra i trenta partecipanti di uno stage di teatro del grande regista polacco Grotowski, organizzato nell’ambito della Biennale di Venezia. Poi io tornai a Milano. Lei a Palermo, dove aveva iniziato ad occuparsi delle fotografie de L’Ora, l’aveva chiamata Nisticò».

Nel 1975 arrivò pure lei al giornale.

«E iniziai a fotografare Palermo insieme a Letizia. Prima di allora non avevo mai pensato alla fotografia come a un mestiere. Erano gli anni della grande mattanza. Non facevi in tempo ad andare sul luogo di un delitto che già ne avevano ammazzato un altro».

Con Letizia siete stati i primi ad arrivare in via Libertà, dove avevano appena ucciso Piersanti Mattarella: era il 6 gennaio 1980. Cosa accadde quel giorno?

«Stavamo tornando da Villa Sperlinga, dove eravamo stati con alcuni amici. Ci siamo accorti della confusione in strada, non sapevamo ancora a chi avessero sparato. E abbiamo iniziato a fotografare le persone che tiravano fuori dall’auto l’uomo ferito. Fra quelle persone c’era Sergio Mattarella».

Quanto era difficile fotografare la mattanza di quegli anni?

«Un giorno arrivò una lettera anonima nell’appartamento dove avevamo sistemato la nostra agenzia, a due passi dal giornale L’Ora. Conoscevano i nostri movimenti. E scrivevano, in un linguaggio abbastanza violento, che dovevamo finirla, altrimenti sarebbe stato peggio per noi».

Cosa accadde dopo?

«Andammo a parlarne con il giudice Falcone. Ci disse che per qualche tempo dovevamo essere un po’ più prudenti. Allora, cambiavamo spesso strada. Oppure, la sera, facevamo dei giri attorno al palazzo dove abitavamo, in via Quintino Sella, prima di aprire il portone».

In tanti hanno continuato a chiamare Letizia Battaglia «la fotografa della mafia». Le piaceva questa definizione?

«Niente affatto, è un’espressione che le stava stretta. Lei fotografava Palermo. E poi, semmai, era una fotografa contro la mafia, un impegno per la città che ha portato anche nella sua esperienza politica. Fino a quando decise di andarsene».

Perché questa scelta?

«Nella politica aveva puntato molto, sacrificando la fotografia. L’attività di assessore della giunta Orlando l’aveva entusiasmata, rimase invece molto delusa dall’arrivo all’Assemblea regionale: presto si rese conto che lì non avrebbe avuto alcun potere di azione, viveva una situazione frustrante. Per un anno restò a Parigi, le subaffittai una stanza di un appartamento che avevo preso a Montmartre. Non stava bene in quel periodo, non voleva vedere nessuno. E aveva sempre nostalgia di Palermo. Alla fine, tornò in Sicilia».

Nei giorni della mattanza chi vi aiutava nel vostro racconto?

«Boris Giuliano, il capo della squadra mobile poi ucciso nel 1979, aveva una grande considerazione per il nostro ruolo. E, allora, appena possibile ci dava spazio e fiducia. Così, sul luogo del delitto, arrivava sempre il momento in cui ci diceva: “Avete 30 secondi”. Io e Letizia ci guardavamo e iniziavamo a scattare».

La Repubblica Palermo, 16/4/2022

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