La strage di via Pipitone Federico del 29 luglio 1983 |
I nomi dei probabili mandanti dell’uccisione di Rocco Chinnici vennero fatti sei giorni dopo la strage di via Pipitone Federico. Vennero fatti ai magistrati di Caltanissetta, ma soltanto 14 anni dopo quei nomi, che nel frattempo erano rimasti racchiusi in un verbale coperto da polvere, ritornarono alla ribalta. Su di loro soltanto una condanna morale, visto che nel frattempo erano morti.
Quei nomi, quelli dei potentissimi cugini Nino ed Ignazio Salvo, vennero indicati ai magistrati nisseni da Paolo Borsellino. Era il 4 agosto del 1983, sei giorni dopo l’eccidio. Borsellino, che era giudice istruttore a Palermo, chiese di parlare con i magistrati nisseni e lo fece con l’allora procuratore Sebastiano Patanè che aveva la guida delle indagini sulla strage.
Borsellino fece una analisi completa, parlando del lavoro di Chinnici ed indicando proprio nei cugini Salvo di Salemi le persone su cui, in gran segreto, Chinnici stava indagando.
Borsellino aggiunse al procuratore Patanè che “Rocco Chinnici era convinto che ai fatti di mafia, almeno ad un livello alto, fossero coinvolti anche i cugini Salvo”, che sino a quel momento erano considerati abili imprenditori per il loro lavoro di esattori.
Quella considerazione di Borsellino, però, rimase negli archivi. Soltanto nel 2000, 17 anni dopo le parole di Borsellino, grazie alle dichiarazioni di molti collaboratori di giustizia, e fra questi Giovanni Brusca che si autoaccusò di essere stato colui che portò l’autobomba in via Pipitone Federico, emersero le responsabilità dei cugini Salvo. Dal processo concluso nel 2000 si evince che i Salvo sapevano già che Chinnici stava indagando sui loro affari. I pm nisseni giunsero soltanto allora alla conclusione che Borsellino aveva sottolineato oltre tre lustri prima.
Tutto ciò che Borsellino disse in quella deposizione ai magistrati nisseni in quella calda giornata di agosto del 1983 appare oggi quasi come un “testamento”.
Borsellino parlò dei suoi rapporti con Chinnici: “Mentre precedentemente conoscevo Rocco Chinnici molto superficialmente, i nostri rapporti si sono sempre più stretti dal 1975 in poi cioè da quando io fui destinato all’Ufficio istruzione ereditando il lavoro che era stato di Chinnici prima di essere nominato consigliere istruttore aggiunto. La collaborazione di lavori si incominciò ad intensificare sempre più dal 1980, cioè da quando io cominciai ad occuparmi di processi di particolare rilevanza, a cominciare da quello relativo alla cosiddetta cosca mafiosa di Altofonte, e all’uccisione del capitano Emanuele Basile”.
Secondo quanto riferito da Borsellino l’omicidio Basile fu una sorta di “spartiacque”. “Chinnici – disse ai magistrati nisseni – ebbe l’intuizione, poi confermata, che l’omicidio del capitano Basile fosse non solo diretta all’eliminazione dell’ufficiale ma ad intimidire tutti quanti, ciascuno nella sua competenza, si interessava di fatti relativi all’organizzazione mafiosa. Infatti – proseguì Borsellino – si preoccupò della sicurezza personale non soltanto sua ma anche dei componenti tutti dell’ufficio istruzione e spesso mi rimproverava di non essere abbastanza cauto e prudente per il fatto che per un certo senso di libertà in me innata circolavo talvolta con la mia autovettura privata e senza la scorta”.
Borsellino face anche cenno alle minacce che Chinnici aveva ricevuto: “Spesso erano telefonate anonime o a vuoto nel senso che dall’altro capo del telefono non parlava nessuno ma si sentiva soltanto il respiro”.
Secondo Borsellino Chinnici era consapevole del pericolo, ma ciò che lo preoccupava moltissimo la possibilità di attentati ai suoi familiari e soprattutto ai suoi figli. “Appresi – sottolineò Borsellino - della sua intenzione di trasferirsi a Torino al posto del Procuratore Bruno Caccia che il 26 giugno del 1983 era stato ucciso dalla ‘ndrangheta. Fu all’istituto di medicina legale dove erano stati trasportati i cadaveri dopo la strage che in contrai il professore Alfredo Galasso, componente del Csm, che mi disse delle intenzioni di Chinnici di trasferirsi, ma che decise di rinviare il tutto perché non c’era una adeguata sostituzione nel posto di consigliere istruttore”.
Nei giorni che precedettero la sua morte Chinnici era impegnato su più fronti di indagini. “Si interessava – disse Borsellino ai pm nisseni – al processo cosiddetto dei 162, di quello dell’uccisione di Piersanti Mattarella e dell’uccisione di Pio La Torre, mentre Giovanni Falcone istruiva il processo per l’uccisione del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Fu in quei giorni che Chinnici mi chiese notizie sul processo del palazzo dei congressi, ove era imputato l’imprenditore catanese Carmelo Costanzo. Mi disse che questo processo gli interessava in relazione a sue indagini. Io mi mostrai perplesso perché sapevo che del Costanzo si interessava Falcone nell’ambito del procedimento Dalla Chiesa. Egli mi chiarì che vi era possibilità che tutti questi processi (quello dei 162, quello per l’omicidio Dalla Chiesa, quello La Torre e forse qualche altro) venissero riuniti. Chinnici in quel colloquio manifestò il suo convincimento, per altro reiterato, che tutti quei fatti e soprattutto gli omicidi La Torre e Dalla Chiesa, avessero unica matrice mafiosa ed anzi rispondessero ad un unico disegno. E fu in quella occasione che fece presente che sui fatti di mafia e quindi anche degli omicidi, almeno ad un livello alto, fossero coinvolti anche gli esattori Salvo. Ciò – continuò Borsellino – lo desumeva da una telefonata fra i Salvo ed il mafioso Buscetta che risultava in una intercettazione del processo Spatola. Contemporaneamente lamentava, ed era amareggiato, per il fatto che nei confronti di costoro si agisse con i guanti gialli da parte di tutti, ed anzi aggiunse, che se gli stessi elementi li avessero avuto nei confronti di altri certamente si sarebbe proceduto”.
E proprio sul “palazzo dei congressi” Borsellino aggiunse anche una particolare: “Chinnici, dopo che erano stati arrestati Costanzo e Di Fresco, disse di avere avuto un colloquio con l’0onorevole Lima, sollecitato dal senatore Silvio Coco, in casa di quest’ultimo, nel corso del quale Lima gli aveva fatto presente che quella iniziativa giudiziaria veniva considerata come una forma di persecuzione per la Democrazia Cristiana, al che Chinnici aveva risposto che l’ufficio si interessava di fatti specifici, contestati a determinate persone senza che potesse avere rilevanza l’appartenenza politica”.
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