di Giuseppe Savagnone
La maglietta di Salvini
La notizia che il sindaco di Przemyls – una cittadina polacca al confine con l’Ucraina, da dove in questi giorni passano migliaia di profughi – , ha sarcasticamente risposto alla visita di Salvini regalandogli una maglietta con l’effigie di Putin – identica a quelle ostentate in più occasioni dal leader leghista – , appare significativa se viene letta nel contesto della polemica che ha accompagnato la decisione del governo italiano di inviare armi al governo di Zelens’kyi e che riguarda il problema del pacifismo.
Perché è indiscutibile che Salvini, come egli ha sottolineato poco dopo in un video, era là per portare «parole di pace». E, al ritorno dalla sua “missione” in Polonia, ha scritto sui social di essere «con il cuore spezzato per aver visitato bimbi, mamme e famiglie fuggiti dalla guerra» ma «felice di sapere che entro sera altri 50 fra bimbi e famiglie scappati dall’Ucraina partiranno in pullman per venire in Italia». E ha aggiunto: «Se volete farmi, anzi se vogliamo farci il regalo più bello, impegniamoci tutti ad aiutare questi bimbi, a restituire loro futuro e sorriso. Questo sì che avvicinerà davvero la pace, ben più di quanto non possano fare polemiche, divisioni, parole di guerra, bombe, missili o carri armati».
Più pacifista di così si muore… Il problema è che non bastano le parole. Altrimenti si rischia di cadere in quel tipo di pacifismo che Milan Kundera, nel suo famoso romanzo “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, definiva “Kitsch” e che egli identificava con il ricorso strumentale all’emotività e alla retorica dei buoni sentimenti: «Nel regno del Kitsch impera la dittatura del cuore (…). Il Kitsch fa spuntare, un dietro l’altra, due lacrime di commozione. La prima lacrima dice: Come sono belli i bambini che corrono sul prato! La seconda lacrima dice: Com’è bello essere commossi insieme a tutta l’umanità alla vista dei bambini che corrono sul prato!».
Purtroppo il frenetico attivismo del leader del Carroccio per la pace, in questi giorni, non può far dimenticare le sue numerose prese di posizione in favore del dittatore che ha scatenato la guerra in corso. Dalle foto al fianco di Putin del maggio 2015 con la didascalia: «Io sto con lui», allo sprezzante confronto col nostro presidente della Repubblica – «Cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin!» – , all’augurio, nel marzo 2018, che «i russi rieleggano il presidente Putin, uno dei migliori uomini politici della nostra epoca, e che tutti rispettino il voto democratico dei cittadini», ce n’è quanto basta per capire il gesto – da Salvini definito «un po’ maleducato» – con cui il sindaco polacco ha respinto le sue parole di pace.
Tre diverse letture del pacifismo
Ma davvero il pacifismo, come sembra pensare Kundera, è condannato a nutrirsi di vuota retorica? Sarebbe ingiusto il sostenerlo. Tuttavia rimane difficile darne una definizione univoca. Si accennava prima alla decisione di molti governi occidentali, incluso il nostro, di fornire armi al governo ucraino per sostenerlo nella resistenza all’invasione russa. Una scelta da molte parti duramente criticata, proprio in nome del pacifismo.
«L’invio di armi», ha scritto su “Il Manifesto” del 9 marzo scorso Alessandra Algostino, «si pone senza soluzione di continuità nella retorica della guerra giusta, nella prospettiva dell’“intervento umanitario”». In realtà, esso «è una forma di partecipazione alla guerra e la esacerba: è contro il ripudio della guerra ed è contro l’idea di una comunità internazionale fondata sulla pace e sulla giustizia fra le Nazioni». «Sia chiaro», precisa a scanso di equivoci l’editorialista: «l’aggressione di Putin all’Ucraina è un atto illegittimo (…). Ma la soluzione non è la partecipazione alle iniziative della Nato, una organizzazione che nel corso degli anni ha con arroganza travalicato il confine di alleanza difensiva».
Una interpretazione decisamente diversa del pacifismo troviamo in un articolo di Vito Mancuso , su «La Stampa» del 6 marzo scorso, dal significativo titolo: «No alla guerra, ma le armi vanno inviate». In esso si sostiene, infatti, che una vera pace «deve contenere in sé anche la possibilità della guerra come legittima difesa. In questo caso si ha la guerra “giusta”, contemplata unanimemente falle maggiori tradizioni filosofiche e spirituali». E Mancuso cita Tommaso d’Aquino, che poneva tre condizioni perché una guerra lo sia: «legittimità dell’autorità che la conduce, giusta causa, giusta finalità». Tutte condizioni che, a so avviso, sono presenti nella guerra del governo di Zelens’kyi e che rendono eticamente giusta la fornitura di armi agli ucraini.
Lo stesso Mancuso in un articolo dell’11 marzo, sempre su «La Stampa», risponde a una terza versione del pacifismo, prevalentemente pragmatica, che invoca la resa dell’Ucraina in nome della impossibilità di una vittoria e, conseguentemente, dell’inutilità della continuazione della guerra, col terribile costo in termini di vite e di sacrifici che essa sta comportando. A questa tesi, anch’essa oggi diffusa, l’autore risponde che, se si tratta di scegliere tra la vita la libertà, è giustificata la scelta della seconda anche a costo della prima. Se la guerra, come in questo caso, è la sola via per opporsi alla schiavitù, essa è legittima.
Riscoprire il concetto di “pace”
Che dire di queste tre diverse interpretazioni del pacifismo? Tutte hanno un’anima di verità. Ma tutte risentono di una scarsa messa a fuoco del concetto di “pace”, che dovrebbe essere essenziale per una corretta interpretazione del pacifismo. S. Agostino l’ha definita con una formula che a me sembra ancora molto attuale: per lui la pace non è solo l’assenza di guerra, ma «la tranquillità dell’ordine».
Questo esclude subito l’ultima versione del pacifismo che abbiamo menzionato: non è un ordine quello che nasce dalla soppressione della libertà di un popolo. A meno di dar credito alla famosa espressione usata dal ministro francese Sebastiani, nel 1831, dopo la spietata repressione russa della rivolta polacca: «L’ordine regna a Varsavia». Ma, se la pace non è una qualsiasi tranquillità, bensì quella che suppone l’ordine sia della libertà che della verità e della giustizia, neppure il pacifismo che esclude a priori ogni possibile ricorso alla guerra appare adeguato.
Ricordiamoci della conferenza di Monaco, nel 1938, quando i primi ministri del Regno Unito e della Francia cedettero alla volontà di Hitler di annettersi i Sudeti, che appartenevano alla Cecoslovacchia. Gli storici sono unanimi nel riconoscere che da questo atto di debolezza scaturì, poco tempo dopo, l’ulteriore pretesa tedesca su Danzica e l’invasione della Polonia, con cui, nel 1939, ebbe inizio la seconda guerra mondiale.
Cosa sarebbe accaduto se, anche in questo caso, i paesi democratici avessero continuato a puntare sul rifiuto incondizionato della guerra? Sarebbe stata una vera pace la tranquillità senza ordine imposta dal nazismo?
La violenza e la forza
L’ordine, però, comporta sempre misura. Questo significa che, anche se implica a volte l’uso delle armi, esso dev’essere quello della forza, non della violenza. Tra i due concetti c’è una grande differenza, com’è quella tra la disponibilità del terrorista a compiere qualsiasi atto, anche il più estremo (violenza), e l’azione dei rappresentanti legittimi della legge (forza), che possono anch’essi ricorrere a mezzi coercitivi, ma solo entro limiti precisi (il poliziotto che spara senza assoluta necessità finisce sotto processo).
Un autentico pacifismo, perciò, non può prescindere dal senso dei limiti . È in questa logica che s. Tommaso d’Aquino, pur non escludendo il ricorso alla guerra, lo subordina a precise condizioni etiche, che non sono solo quelle ricordate da Mancuso, ma riguardano, più in generale, lo stile della lotta. Un conflitto condotto senza esitare a colpire indiscriminatamente militari e civili, mettendo a rischio perfino la sicurezza delle centrali nucleari – come purtroppo è quello che Putin sta conducendo in Ucraina – , è in ogni caso una guerra ingiusta, di fronte a cui si può anche riconoscere la necessità di aiutare il paese aggredito a difendersi, fornendogli armi.
Che la gusta condanna di Putin non sia un alibi per gli altri
Ma lo sarebbe anche un intervento della Nato che si spingesse fino a rischiare di provocare un conflitto mondiale, come avverrebbe se si cedesse alle reiterate richieste ucraine di creare una no-fly zone, impegnando l’aviazione dei paesi occidentali in un probabile scontro con l’aviazione russa. Un rischio catastrofico, di cui Zelens’kyi – rivelando a sua volta uno scarso senso della misura – sembra non preoccuparsi affatto.
E forse, più a monte, questo senso della misura avrebbe dovuto indurre gli Stati Uniti, – gli unici assolutamente certi che quello di Putin non era un bluff – ad accogliere la sua richiesta di garantire la neutralità ucraina. Come nel 1962, quando, di fronte all’aut aut di Kennedy, Kruscev rinunziò a dotare Cuba (anch’esso uno Stato sovrano, che aveva avanzato la richiesta) di missili.
Probabilmente il capo del Cremlino avrebbe scatenato egualmente la sua offensiva, spinto dalla sua volontà di ripristinare una “grande Russia”. L’Occidente, però, avrebbe fatto tutto il possibile perché la tragedia della guerra fosse evitata. Ma il vero pacifismo, se vuole veramente fondarsi sull’ordine, non può prescindere dalla libertà in un senso più ampio di quello di cui parla Mancuso, un senso che deve includere non solo autodeterminazione, ma anche verità e giustizia.
Non è ordine quello di un sistema mondiale fondato su una drammatica ingiustizia nella distribuzione delle risorse. Non è pace quella in cui i i nostri paesi ricchi sprecano infinite risorse, mente quelli poveri vedono morire di fame, di sete e di malattie i propri bambini. Che la doverosa condanna di Putin non diventi per noi un alibi per sentirci innocenti.
tuttavia.eu, 11/3/2022
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