sabato, marzo 12, 2022

I CINQUANTA ANNI DEL FILM. Così “Il padrino” diventò brand mafioso

Al Pacino è Marlon Brando in una scena de “Il padrino”

di UMBERTO CANTONE

L’interpretazione di Marlon Brando e compagni creò uno stereotipo siciliano inventò un fascinoso boss- gattopardo e scatenò polemiche persino a Ciaculli

Quando finalmente arrivò sul grande schermo del cine- teatro Golden di Luigi Mangano, nel settembre 1972, e i palermitani accorsero a riempire, nei tre spettacoli giornalieri, i mille e trentatré posti della sala di via Terrasanta, “ Il padrino” di Coppola sembrava destinato a entrare nell’olimpo di quei classici capaci d’incistarsi nell’immaginario comune per rifondarne i connotati. Un cult movie fecondo di sequel e riedizioni che ha fondato un genere e influenzato epigoni, una bandiera identitaria del “made in Little Italy” e del suo côté mafioso la cui aura non è stata scalfita nemmeno quando, di recente, si è trasformata in brand da proloco. E tutto questo trascinandosi dietro una scia di polemiche di cui, a cinquant’anni di distanza, conserviamo un ricordo sfocato. Fu senza dubbio l’effetto del suo fulmineo exploit, dopo la trionfale première newyorkese del 15 marzo, a evidenziare fino a che punto questo ammaliante prototipo della new Hollywood rampante, tratto dall’ordinario mafia- feuilleton scritto di Mario Puzo e diventato a sorpresa un bestseller, fosse riuscito a mettere il dito nella piaga, predisponendo spettatori e lettori di mezzo mondo a fare i conti con le irrisolte ambiguità culturali, morali, politiche riguardanti il fenomeno mafioso e la sua rappresentazione. 

Di conseguenza, alla fascinazione che conquistò i cultori di quel film “ perfetto”, una moderna tragedia shakespeariana intrisa di nichilistici umori noir, corrispose l’indignazione di coloro che lessero nell’operazione “ Padrino” un esempio di mistificazione della realtà. Una mistificazione generante la consueta sindrome della “ sympathy for the devil”, imputabile soprattutto alla magniloquenza attorale del divo Brando che regala al mammasantissima Vito Corleone, con tutte le sue sanguinarie offerte irrifiutabili, un’allure da malinconico Gattopardo di Long Island. 

Assai aspro fu il commento dello scrittore italo- americano Giose Rimanelli apparso sulle colonne di Playmen in quello stesso settembre: «Il guaio e il successo di questo film risiede in qualcosa di assolutamente vomitevole e intellettualmente inaccettabile: la romanticizzazione del delitto e degli uomini che lo compiono » . Non meno tranchant fu il giudizio dello scrittore Moravia, inqualità di recensore su “l’Espresso”: « La falsificazione di Coppola consiste prima di tutto nell’idealizzazione sentimentale di un ambiente sociale orrendo». 

Gli intellettuali siciliani più engagé si limitarono a prendere le distanze da libro e film, ostentando un silenzio sdegnato. Snobismo da letterati, la cui sintesi sta tutta in quella risposta che Sciascia diede una volta a Sebastiano Gesù: «Sa che io non vedo i film sulla mafia, non li ho mai visti. Nemmeno quelli tratti dai miei libri». 

Una cosa è certa: per tutti coloro che, in quegli anni, erano impegnati nel rischioso esercizio della denuncia politica di Cosa nostra e dellesue collusioni con la Dc di Ciancimino e Lima, “ Il padrino” diventò un simbolo di manipolazione apologetica, fatto apposta per sostenere lo stereotipo, a quel tempo dominante, di una mafia ormai al tramonto, priva di ogni radicamento e trasformata in attività criminale ordinaria. 

Nella Sicilia del 1972, in trincea c’erano soprattutto una parte del Pci d’opposizione e militanti extraparlamentari febbrilmente generosi come Peppino Impastato, quell’anno impegnato nella campagna per le elezioni nazionali col “Manifesto”, a cui aveva aderito quel Circolo Lenin fondato a Palermo da Mario Mineo, che nel 1970 denunciò il consolidamento al potere di una borghesia capitalistico- mafiosa. Paradossalmente l’equiparazione tra capitalismo e mafia fu proprio la chiave di lettura “ radical” del film suggerita dal protagonista Brando, che in quel periodo ostentava il suo impegno da antimperialista in svariate interviste al vetriolo: « Ritengo che le tattiche di don Corleone non siano molto differenti da quelle usate in Vietnam dal nostro governo o dalla grande industria consumistica che ci avvelena. È così americana la mafia! » . Dello stesso avviso era il regista Coppola che infatti, nel ’74, fece del suo Padrino IIuna sulfurea metafora dell’America di Nixon. Quanto alla reazione dei capimafia nostrani, sappiamo che, al romanzo di Puzo, uno come “ Zu Binnu” Provenzano preferìsempre la lettura compulsiva del Vecchio Testamento, i cui versetti amava citare pure “ don” Michele Greco che, nel corso del maxiprocesso, si lasciò andare alla celebre invettiva sulla «rovina dell’umanità» provocata da « pellicole di violenza come “ Il padrino” » . Un’avversione, quella del “ papa di Ciaculli”, le cui motivazioni erano le stesse del boss di Brooklyn Joe Colombo che, gestendo l’Italian- American Civil Rights League ai tempi delle riprese del film, mise i bastoni tra le ruote al produttore Evans (con minacce che culminarono in un attentato) e a Coppola, per poi concedere loro la location di Little Italy in cambio di qualche elargizione e a patto che nessun attore pronunciasse la parola “ mafia”. A Colombo i rivali non perdonarono quella concessione e lo fecero fuori col pretesto di aver contribuito al successo di una pellicola che aveva acceso i riflettori su Cosa nostra nel periodo caldo di una guerra tra fazioni. 

Furono i mafiosi di nuova generazione, quelli modello “ Sopranos”, ad assumere “ Il padrino” come modello mitologico, recuperando nostalgicamente, ma senza più complessi, la sua edulcorante filosofia di fondo che assimila l’orgoglio di famiglia a quello dei clan. 

Oggi, per loro, quel film diventato un classico non è che fiction. Come lo era per quei killer di professione che, presenti sul set durante le riprese a Little Italy della scena dell’attentato a don Vito/ Brando, si divertirono a sbeffeggiare rumorosamente i figuranti nel ruolo dei sicari per il modo maldestro in cui impugnavano le pistole. 

La Repubblica Palermo, 12/3/2022

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