di Santo Lombino
La pioggia cade su di noi
la gente non sorride più
vediamo un mondo vecchio che
ci sta crollando addosso ormai.
Ma che colpa abbiamo noi!
Erano queste le canzoni che infiammavano gli animi degli adolescenti e dei giovani tra il 1965 ed il 1970. Poi ci spiegarono che queste canzoni in realtà erano un prodotto della “linea verde”, cioè della corrente moderata e commerciale della canzone italiana, mentre c’erano canzoni e cantanti della “linea rossa”, più battaglieri e politicizzati. Ma per noi ragazzi di provincia le prime erano già abbastanza rivoluzionarie, erano un modo di venire fuori dalla tradizione familiare e dalla monotonia del tran-tran quotidiano.
La musica, trasmessa per radio o ascoltata nei locali, era infatti un veicolo di circolazione delle idee a livello internazionale, che coinvolgeva i giovani di tutto il mondo industrializzato: prima il rock’n’roll, poi la musica beat avevano fatto sentire le ragazze e i ragazzi di città grandi e piccole membri della stessa comunità. Molti cominciarono a farsi crescere i capelli per protesta contro la società conformista e ipocrita con ideali “macchina-moneta-moglie”.
I “capelloni” portavano in giro il simbolo anti-bomba atomica che fu di Bertrand Russell e lo slogan anti-militarista “Make love not war”. Quelli più impegnati leggevano “On the road” e “Jukebox all’idrogeno” di Jack Kerouac, quelli meno compravano in edicola i settimanali “Ciao amici”, “Big”, “2001”, “Giovani” che portavano notizie sui Beatles, i Rolling Stones e i loro imitatori italiani, sostenuti dall’industria discografica che da Milano e Roma inondava l’Italia di dischi a 45 giri.
Io leggevo questi giornali e, frequentando la parrocchia, il mensile dei salesiani “Dimensioni”, rivolto ai giovani. In questa rivista lessi per la prima volta brani del libro “Lettera ad una professoressa” scritta dai ragazzi della scuola di Barbiana con il prete don Lorenzo Milani: quel testo, che diventò poi il vademecum delle lotte studentesche, mi colpì per la semplicità delle frasi e per la sua capacità di andare dritto al nocciolo delle questioni. In quelle pagine, io che nulla avevo letto di Marx e di Lenin, trovai le idee per cui pensavo valesse la pena battersi e lottare a scuola e fuori della scuola: me ne procurai una copia, che leggevo con un gruppo di ragazzi sui marciapiedi dell’edificio scolastico o in qualche sede improvvisata e sempre diversa.
Il parroco del paese, seppur giovane e “alla mano”, pensò bene di segnalare dal pulpito alle famiglie la necessità di stare attenti a quello che facevano e leggevano i giovani in quelle strane riunioni. Noi, appena informati, scrivemmo una “lettera aperta” al parroco in cui seguendo gli insegnamenti di don Milani, lo invitavamo, nientemeno, a rendersi utile alla società leggendo in chiesa il giornale quotidiano perché tutti fossero messi a conoscenza di ciò che accadeva nel mondo. Ma l’intervento del parroco fu sufficiente perché alcuni genitori, convinti che noi fossimo perlomeno dei pericolosi “protestanti”, proibissero fermamente ai figli di partecipare a quegli incontri: meglio prevenire! Ricordo poi che prestai al parroco un libro sull’esperienza dei cattolici di base del quartiere dell’Isolotto di Firenze: in quegli anni c’era fermento anche tra i cristiani ed anche nella chiesa cattolica. Comunque, il libro mi fu restituito senza alcun commento.
Altre idee vennero fuori leggendo il quotidiano L’Ora ed il settimanale Voce Nostra di Palermo e partecipando alle prime assemblee nel liceo che frequentavo. Alla fine di una di esse, un giovane militante cercò di convincermi, senza molto successo, del fatto che, a parte qualche errore, Josip Stalin era stato un bravo dirigente dell’Unione Sovietica...
Una mattina, di fronte ai cancelli della scuola, le sinistre ed i fascisti se le diedero di santa ragione, usando catene come arma. Poi venne un giovane più esperto, Corradino Mineo della “Lega studenti rivoluzionari”, oggi giornalista Rai, a spiegarci quali dovevano essere le parole d’ordine e gli obiettivi del movimento studentesco. Affermò con energia che non si dovevano più gridare slogan tipo: “Faremo più rosse le nostre bandiere con il sangue delle camicie nere”, perchè non era il caso di inneggiare al sangue e alla violenza. E poi, sostenne, non erano i giovani neo-fascisti il nemico principale degli studenti, ma le scelte autoritarie del ministero della pubblica istruzione, del governo, del sistema capitalistico, etc. etc...
Il problema della violenza fu uno dei più discussi in quel periodo, dato che in pochi anni si era passati dal pacifismo degli “hippies”, dei figli dei fiori, delle prime proteste contro la guerra del Vietnam alla accettazione della violenza come “necessità della storia”, unica arma degli oppressi contro gli oppressori, secondo i sacri testi marxiani, scritti cento anni prima. Ma a quel tempo Gandhi era visto come un illuso utopista e Danilo Dolci era un perfetto sconosciuto, almeno tra la maggior parte degli studenti che protestavano. A Palermo, comunque, non ci furono o non ricordo scontri violenti con le forze dell’ordine. Ad un certo punto c’erano cortei su cortei “contro la repressione” come unico obiettivo. Sicché un giorno il preside della mia scuola chiese ad un leader studentesco perchè cosa lottasse. Questi rispose: “Contro la repressione”. “E poi?” ribattè l’altro. Lo studente non seppe aggiungere alcunché. “E allora, se non ci fosse la repressione, voi non avreste nulla per cui lottare?” concluse il preside.
Lo spirito del sessantotto durò alcuni anni, e a Palermo gli studenti scendevano spesso in strada a fianco degli operai del Cantiere navale, che erano i più organizzati e combattivi. C’erano manifestazioni per le scadenze contrattuali e per motivazioni politiche nazionali. Nell’autunno 1970 si fece un corteo contro il sindaco Ciancimino con la richiesta di “espropriare i mafiosi”. Sulla mafia leggevamo con curiosità i libri di Michele Pantaleone da Villalba.
Alcuni studenti stampavano il giornale “Controscuola” con le notizie delle iniziative nelle diverse scuole, altri un giornale di poesia e letteratura ribelle intitolato “Fasis”, altri organizzavano happening per strada e sugli autobus di città. Ne ricordo uno in particolare. Salivano sul mezzo pubblico in gruppo e ad all’improvviso squillava sonoramente una grossa sveglia a corda. Tutti i passeggeri, ovviamente, si giravano verso il ragazzo che teneva la sveglia nello zainetto. A questo punto il gruppo dei giovani complici gridava, tra gli occhi sbarrati degli astanti.”E’ ora, è ora, potere a chi lavora!”.
C’erano gruppi di giovani che facevano teatro e cabaret. Nacque a Palermo il “Teatro Libero”, che aveva una piccola sede con una trentina di posti a sedere: ricordo di avere assistito al lavoro di Bertolt Brecht “L’eccezione e la regola” che mi piacque moltissimo e mi portò a regalare per i compleanni il libro “Poesie e canzoni” del regista tedesco. Grandi folle si riunivano in città per gli spettacoli di Dario Fo: una sera al teatro Politeama, la questura vietò la rappresentazione dello spettacolo “per motivi politici”: il che suscitò un’impressione fortissima tra i mancati spettatori. Anche il cinema attraeva la nostra attenzione. A Palermo nacque un cineclub guidato da giornalisti e critici cinematografici. Con il loro aiuto, a Bolognetta creammo un circolo che si chiamò “Il triangolo”, sotto le cui insegne tentammo di organizzare una rassegna con i film che si proiettavano nei cineclub di Palermo e che ci venivano prestati di volta in volta. Senonché l’impatto fu molto diverso, perché solo tre o quattro spettatori vennero a vedere film come “I figli della violenza“ di Luis Bunuel: diciamo che tra la città e la provincia c’erano, ahimè, trent’anni di distanza!
Ma il ricordo più grosso dell’epoca è legato a un pomeriggio trascorso nella sede del Circolo Lenin, in via Costantino Nigra, a Palermo. Un centinaio di studenti ascoltavano in religioso silenzio Umberto Santino, dirigente politico serio e compassato, spiegare e commentare il classico “Che fare?” di Lenin, con dotti rimandi da una pagina all’altra del libro. Ad un certo punto si apre fragorosamente la porta, entra trafelato uno studente dai lunghi capelli: trattasi di Toti Garraffa, oggi affermato pittore e docente all’Accademia di Belle Arti. Con tutto il fiato che ha in corpo grida: ”Compagni, il liceo artistico è occupato!”. Gli risponde dalla sala un lungo fragoroso e fervoroso applauso: era come se avesse annunciato la presa del Palazzo d’Inverno.
SANTO LOMBINO
CESIM - Centro Studi e Iniziative di Marineo, 6 febbraio 2022
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