di ALESSIA CANDITO
In tutta la provincia sequestri da miliardi di euro. E intanto nella frazione protagonista della serie tv il Comune finanzia un campo di padel anziché i lavori sul costone che frana
TRAPANI - “Sa come vedono qui la parola ‘mafia’? Una cartaccia buttata nel salotto buono, dimenticando che nell’altra stanza c’è un armadio pieno di segreti che si è scelto di non aprire”. Maria Pia Erice, 39 anni, è una che ha deciso di restare. Da sempre attivista nel sociale, esperta di rigenerazione urbana, da Trapani non ha voluto andarsene. Non sono molti ad avere fatto la sua stessa scelta. Nelle strade di un centro storico che, tra infinite insegne di b&b e bar, racconta la storia di mille dominazioni, di giovani se ne vedono pochi. Come vent’anni fa, se non di più. E oggi, come quasi quarant’anni fa, Trapani si indigna quando qualcuno tocca il nervo scoperto dei rapporti con la mafia. All’epoca era stata quella “ Piovra” che ha reso Cosa nostra argomento più o meno masticabile da Pordenone a Canicattì. Lo sceneggiatore Nicola Badalucco diventò per molti un « nemico della città», perché da trapanese, dicevano, l’aveva infangata.
Adesso gli sceneggiati si chiamano fiction, ma è bastata una frase, in un racconto assai più innocuo, sulla Trapani degli “ amici degli amici” per far montare la polemica. «Lì — dice uno dei personaggi della serie Màkari, tratta dai romanzi di Savatteri — inventarono la parola Cosa nostra. I primi mafiosi sbarcati negli Stati Uniti venivano proprio da lì » . Parole che, forse anche involontariamente, raccontano di una mafia antica, potente, radicata, diversa dal racconto noto delle stragi.
Sono insorti i social, poi anche il sindaco Giacomo Tranchida che ha invitato a parlare di «questa terra baciata dal sole, bagnata dal sangue della resistenza e accarezzata dal vento del riscatto » . « A me indigna che ancora ci si indigni se qualcuno parla di mafia a Trapani», dice il professore Salvatore Lupo, che da storico ha ricostruito le geografie del potere criminale delle famiglie che da Castellammare del Golfo, «una dellecapitali della mafia», hanno conquistato gli Stati Uniti.
I padrini di oggi — raccontano le indagini — hanno ancora rapporti con loro. E in tutto il Trapanese i sequestri si contano in miliardi di euro: non c’è settore — dall’eolico all’agricoltura, dal turismo alle costruzioni, fino al calcio — in cui le “ famiglie” non abbiano messo le mani. Imprenditori che denunciano qui non ce ne sono, dice un investigatore, perché qui ci si mette d’accordo. « Trapani non ha mai fatto i conti con il suo passato», constata lo scrittore Giacomo Pilati. Perché la mafia è nelle infinite sfumature di grigio che attraversano la politica, l’economia, le professioni, le logge. Che non sono mai passate di moda nella terra in cui amministratori, imprenditori, uomini delle istituzioni si affratellavano con i boss, come ha raccontatol’indagine “Iside” che ha fatto scoprire la loggia Scontrino.
Preistoria, si obietta. Ma guanti e grembiule, spiega oggi l’inchiesta “Artemisia”, servivano per distribuire anche patenti (e pensioni) di invalidità civile. E Matteo Messina Denaro è ancora relazioni, rapporti, magari segreti. Sfumature.
La più evidente ha faccia di Tonino D’Alì, ex senatore forzista ed ex sottosegretario all’Interno, condannato in primo e secondo grado per concorso esterno in associazione mafiosa. Nelle terre della sua famiglia — gente di banche e di potere — i Messina Denaro, prima il padre don Ciccio, poi il figlio, erano campieri. Lui si è sempre detto vittima e non complice, eppure anche in Calabria — parola del pentito Marcello Fondacaro — lo sapevano affiliato alla stessa loggia segreta del superlatitante.Con boss trapanesi come Vincenzo Virga e Francesco Pace — hanno raccontato le inchieste — rapporti e affari si basavano sul noto baratto: appalti per voti. Correva da sindaco di Trapani, D’Alì, quando gli è stata notificata una richiesta di soggiorno obbligato per pericolosità sociale.
Quell’anno, al ballottaggio, il candidato del centrosinistra Pietro Savona ci è arrivato da solo per l’arresto del rivale, il deputato regionale Mimmo Fazio. A batterlo è stata la città. A votare sono andati meno del 27 per cento dei trapanesi ed è arrivato il commissariamento. « Trapani ha subito due grandi ubriacature — dice Maria Pia Erice — La prima è stata la Louis Vuitton Cup, che ha portato anche cose positive come il recupero di alcuni quartieri » . Qualche anno dopo si è scoperto che la mafia se n’era presa una bellafetta. « Poi — continua — c’è stata quella del turismo: il centro è diventato una vetrina, tutto è stato subordinato al mantenimento di quella cartolina. Anche la possibilità dei residenti storici di viverci. Nel frattempo, c’è stata un’amnesia collettiva. Come se ci fosse sempre scirocco».
Quel vento che confonde i pensieri, fa masticare sabbia, riempie di giallo le strade sembra non abbia più smesso di soffiare. «Trapani è la città dell’inganno», dice Nicola Biondo, giornalista, scrittore, in passato consulente di varie procure. Lui a Màkari, quella vera, ci vive. E sulla sua, come sulle altre case del paese, incombe un picco di roccia qualificato “R4”. Significa massima pericolosità. Ma per il Comune di San Vito Lo Capo, di cui è frazione, tra gli interventi di massima priorità c’è la riqualificazione della strada che porta al faro, con la costruzione di un campo di padel. Un’attrazione in più per i turisti della prossima estate.
La Repubblica Palermo, 20/2/22
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