di ANTONIO MONDA
Il 15 marzo del 1972 usciva il primo titolo della trilogia di Coppola con Marlon Brando, James Caan, Diane Keaton e l’allora sconosciuto Al Pacino
Era stato il produttore Robert Evans a insistere che la prima del Padrino fosse al Loew’s State Theatre di New York. La scelta non era legata alla bellezza del teatro, nato per il vaudeville, ma alla scaramanzia: aveva debuttato lì Ben Hur, vincitore di 11 Oscar. Il Padrino era il film più atteso dell’anno ma aveva avuto una lavorazione travagliata e l’inaugurazione, programmata a Natale, era stata spostata di tre mesi per consentire a Francis Ford Coppola di apportare gli ultimi ritocchi. C’era molta tensione, quella sera del 15 marzo 1972, e la Lega dei diritti civili degli italoamericani aveva organizzato una protesta: era riuscita solo a far rimuovere dal film la parola “mafia”, mentre Frank Sinatra aveva chiesto al produttore Fred Roos di tagliare il personaggio di Johnny Fontane, nel quale si era riconosciuto. Sarà una coincidenza, ma dopo il rifiuto Roos trovò la propria auto in fiamme.
Erano tutti consapevoli che le loro carriere dipendevano dall’esito del film e c’era grande preoccupazione per un red carpet composto da un divo in piena decadenza come Marlon Brando, attori alle prime armi come James Caan, Diane Keaton e John Cazale, sconosciuti come Al Pacino o beneficiati da una scelta nepotista come Talia Shire, sorella di Coppola. Mario Puzo, autore del romanzo, oscillava tra l’eccitazione e la paura: era pieno di debiti e gli usurai lo avevano minacciato di morte. La Paramount era schierata al gran completo per accogliere il segretario di Stato Henry Kissinger, che al termine dell’applauso interminabile alla fine del film dichiarò: «È un’opera straordinaria, che non racconta nulla di diverso da quello che vedo ogni giorno a Washington». Fu il primo a decretare il trionfo del Padrino, che rivelava la propria natura di capolavoro dall’inquadratura iniziale, con l’impresario delle pompe funebri Bonasera che chiede a don Vito Corleone di vendicare la figlia, stuprata da due malviventi. “I believe in America”, dice con pesante accento italoamericano, e la battuta trasporta immediatamente lo spettatore in una dimensione epica.
Coppola chiese al direttore della fotografia Gordon Willis di immergere i personaggi nel buio, qualcosa di rivoluzionario per l’epoca, tanto più che la scena avviene di giorno: gli interessava che si vedessero a stento gli occhi, specchi di anime corrotte. Il boss è ripreso di spalle che accarezza un gatto e indossa uno smoking: è il giorno del matrimonio della figlia e per tradizione accontenta ogni richiesta. La potenza del film è già tutta in questi primi secondi, con don Vito che si gratta il mento con l’anulare, un gesto apparentemente insignificante nel quale c’è tutta la magia del cinema: solo sullo schermo trova la sua compiutezza e prelude alla reazione di offesa quando Bonasera gli offre dei soldi, “cosa ho fatto per meritare la tua mancanza di rispetto?”.
Dopo aver pensato a Costa Gavras, Leone e Peckinpah, Evans si convinse di affidare il film a un regista italoamericano ma durante le riprese pensò di sostituirlo con Elia Kazan: non era soddisfatto del materiale girato e ancor meno di Al Pacino, cui avrebbe preferito Robert Redford o Ryan O’Neal. Per fortuna Coppola tenne duro, grazie anche al lavoro di persuasione di Diane Keaton, all’epoca compagna dell’attore. Era riuscito a imporre anche Nino Rota come musicista e Marlon Brando come protagonista, il quale ebbe l’intuizione di parlare con un filo di voce, per evidenziare che un vero capo non ha mai bisogno di alzarla. L’attore era rimasto sbalordito che Puzo si fosse ispirato alla madre e aveva capito le potenzialità del film, pieno di battute memorabili: “Gli ho fatto un’offerta che non può rifiutare”, “è un’offesa alla mia intelligenza”, “su quel contratto ci sarà la tua firma o il tuo cervello”, “prendi i cannoli, lascia la pistola”.
Per non parlare delle scene madri, che alternano la violenza all’idillio e sottolineano come i Corleone siano circondati da persone peggiori di loro: le uccisioni di Luca Brasi, Sonny, Sollozzo e McCluskey, il battesimo in montaggio alternato con un massacro, il meeting nel quale don Vito avverte gli altri capimafia di ritenerli responsabili di un’eventuale morte del figlio, “anche se dovesse essere colpito da un fulmine”, il produttore che trova nel letto la testa del suo cavallo prediletto, la morte di don Vito mentre gioca col nipote nel suo orto e, soprattutto, il matrimonio. Nel modo in cui immortala don Vito che balla con la figlia, e poi la madre che canta per lei una canzone italiana, Coppola riesce a compiere il miracolo di descriverli come criminali, mostrandoci però che sono anche uomini e delle donne come tanti. È lo stesso approccio che ha quando un killer spietato come Clemenza insegna a Michael come si prepara il sugo e poi lo sfotte perché parla a bassa voce con la fidanzata: “E diglielo che le vuoi bene”. È questo sguardo umanista che lo rende un film meraviglioso e imprescindibile, ma anche pericoloso come le opere d’arte che riflettono sull’essenza del bene e del male in maniera non manichea. Una volta ho avuto il privilegio di parlarne con Coppola e quando gli dissi che lo consideravo una storia di perdizione di un eroe di guerra che diventava un capomafia, mi rispose che preferiva raccontarlo in un altro modo: «È la storia di un re che aveva tre figli, il primo ha la sua bontà, il secondo la sua forza, il terzo la sua intelligenza».
La Repubblica, 27/2/2022
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