di Stefania Auci
Colei che sembra nuda anche se comple- tamente vestita». La “colei” in questione è la diva siciliana Pina Menichelli inTigre reale,il film del 1916 tratto dal romanzo di Giovanni Verga e diretto da Piero Fosco (cioè Giovanni Pastrone, regista del fondamentale Cabiria).
Alta, flessuosa, coi capelli ricci sempre scomposti, con uno sguardo limpidissimo e magnetico e con una gestualità secca e imperiosa, Pina Menichelli è il corpo perfetto della contessa Natka (Nata nel romanzo di Verga), ne comunica tutta la scandalosa ambiguità: «È tutto un mistero.
Impreca contro la brutalità di suo marito, mentre insanguina le carni dei suoi poveri servi a colpi di knut. Ama profondamente lo sventurato studente Dolski e lascia che il povero illuso si uccida». «Vive, palpita, gioisce, soffre, si dilania, si logora, muore!» esclama il critico Pio Fasanelli sulla rivista La Cine-Fono del novembre 1916.
Chissà se Verga, che aveva venduto per seicento lire alla Itala Film la sceneggiatura di Tigre reale ben quattro anni prima, l’aveva immaginata proprio così, la sua Nata, quando aveva scritto il romanzo, pubblicato nel 1875. Anche perché c’è quasi un abisso tra questa donna «ferina » e, per esempio, le donne dei Malavoglia, come donna Rosolina: «Una casa senza donna non poteva andare; ma la donna bisognava che avesse il giudizio nelle mani, come s’intendeva lei; e non fosse di quelle fraschette che pensano a lisciarsi e nient’altro, “coi capelli lunghi e il cervello corto”, ché allora un povero marito se ne va sott’acqua come compare Bastianazzo, buon’anima ». Un abisso, però, attraversabile lungo quel ponte gettato da Fantasticheria (1879), la lettera scritta all’amica elegante e raffinata con la quale Verga aveva trascorso due giorni proprio ad Aci Trezza, un testo in cui emerge il Verga deciso ad allontanarsi dal mondo altoborghese per essere invece vicino ai «poveri diavoli».
Su quel ponte ha deciso di camminare Verga, e lo costruisce con determinazione, attingendo all’Assommoir di Émile Zola, alla Sicilia nel 1876, l’inchiesta rivelatrice (e a lungo ignorata) di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino sui problemi dell’isola, ma anche aMadame Bovary di Gustave Flaubert e a quell’autentico bes tseller del periodo che è
La fisiologia dell’amore di Paolo Mantegazza: «Uno studio dell’amore nella nostra società moderna, e come dovrebbe essere in una società migliore», come dice lo stesso autore. Ma l’impresa è tutt’altro che semplice, anche perché non riguarda soltanto una diversa concezione del mondo e un diverso atteggiamento nel descriverlo, ma anche un’elaborazione profonda, individuale, del ruolo che in quel mondo riveste la donna.
Siamo fortunati ad avere una traccia concreta di questo passaggio, ed è proprio Tigre reale, che “vive” in due versioni: la prima –Felis Mulier, mai pubblicata – scritta nel 1873 e la seconda uscita, appunto, nel 1875. Tra i due testi, le differenze sono quasi innumerevoli (dai nomi ai luoghi) e, se il nucleo della storia rimane intatto - un uomo e una donna che riescono ad amarsi solo in situazioni limite – i due finali sono addirittura antitetici: nel primo, la protagonista muore, consegnando all’eternità l’illusione dell’amore passionale e lasciando l’amante in preda alla disperazione; nel secondo, l’uomo è sposato e l’adulterio è descritto con tratti da girone infernale, mentre il matrimonio e il perdono sono l’unica possibilità di salvezza, il porto sicuro. È divertente notare come esista anche un terzo finale, non nel testo, ma nel film.
È lo stesso Verga a raccontarlo in una lettera del 1916: «Poiché la censura di certi paesi esteri, come dite, non tollererebbe forse la morte della protagonista diTigre reale per etisìa sullo schermo cinematografico, potrebbe sopprimere quest’ultima scena o adattarvi quella variante che crederete meglio. Io non mi oppongo ».
E infatti, in questo terzo finale, i due amanti (entrambi senza vincoli matrimoniali) partono addirittura in vacanza.
No, a Verga non può interessare quel nuovo finale perché nel 1916 ha superato da tempo il fascino – letterario e no – dell’amore maledetto. Ma ciò non significa che, nella sua narrativa, l’immagine della donna si sia cristallizzata in quella di madre- moglie di specchiata virtù. In Vita
nei campi (1880), troviamo, infatti, un personaggio così estremo da sembrare uscito dall’immaginazione di un Fellini sotto acido: la gnà Pina, detta la Lupa «perché non era sazia giammai», è l’incarnazione di un furore sessuale che nessuno slancio materno e nessuna convenzione sociale riescono a limitare e che può avere soltanto la morte – una morte decisa da un mondo maschile gretto e ottuso – come conclusione.
Quasi a contrappunto, le donne deiMalavoglia (pubblicato nel 1881 con scarsissimo successo) sono invece, come si diceva, vestali dei legami familiari, donne pazienti e miti che si sacrificano in silenzio per il marito e i figli. Certo, c’è Lia, la nipote ribelle di padron ’Ntoni, ambiziosa e imprevedibile, che va incontro a un destino di perdizione e disonore per non essersi adeguata alle regole, però Maruzza e Assunta resistono, scogli inattaccabili per l’ostrica- famiglia.
E poi c’è Mastro-don Gesualdo(1889), forse il più profondo e complesso esame di Verga della condizione femminile, passando da Deodata, la serva che ama silenziosamente Gesualdo e vive il suo amore come una colpa, alla moglie di Gesualdo, la nobile Bianca, e alla figlia Isabella, vittime entrambe dell’amore per uomini poco affidabili e i cui comportamenti avranno gravi conseguenze per tutti.
Che sia stata proprio la difficoltà di costruire l’ultimo tratto di “ponte” a determinare la crisi creativa di Verga che risale almeno al 1893, anno in cui torna a vivere a Catania? In fondo, il terzo – incompiuto – libro del Ciclo dei vinti s’intitolava La duchessa di Leyra e, se riprendeva personaggi diMastro don Gesualdo,rappresentava anche idealmente un ritorno agli ambienti altoborghesi dei romanzi giovanili e, forse, a figure femminili analoghe a quelle diTigre reale. Una saldatura probabilmente impossibile, resa ancora più difficile dal ritmo sempre più frenetico con cui il mondo stava cambiando (e le donne con esso). Tutti i grandi scrittori danno voce al proprio tempo; Verga non soltanto l’ha raccontato, ma vi ha anche aderito con singolare determinazione e con innegabile coraggio, senza paura di ammettere i propri limiti, ma indagandoli. Ed ecco perché, oggi, al di là degli occhi spiritati di Pina Menichelli o ai papaveri rossi che la Lupa stringe a sé mentre va a morire, al di là quindi dell’«effetto», la straordinaria complessità che i romanzi e le novelle di Verga ci offrono può tornarci utile. Perché certe contraddizioni – e certi atteggiamenti moralistici – hanno ancora una sorprendente vitalità e non mollano la presa. Altro che ostriche.
La Repubblica Palermo, 27/1/2022
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