Federico Cafiero de Raho
di Alessia Candito
«Arriverà un nuovo pezzo di verità sulle stragi. Di questo ne sono convinto. Stiamo lavorando da anni per questo». Non è uomo dalle promesse facili, Federico Cafiero de Raho. Uno dei magistrati che hanno smantellato il clan dei Casalesi in Campania, al vertice della procura di Reggio Calabria negli anni in cui si è scoperto il vero volto della ‘Ndrangheta, dal 2018 è a capo della Dna. «In scadenza purtroppo, fra meno di un mese andrò in pensione».
Diventare capo di un ufficio così importante era un obiettivo fin dall’inzio della sua carriera?
«Assolutamente no. Sapevo solo di voler fare il pubblico ministero con un obiettivo: garantire libertà e giustizia».
Primo incarico?
«A Milano, una grande scuola. Ero un ragazzino. Quando andavo in udienza i carrelli con i fascicoli mi sembravano enormi».
I maestri dell’epoca?
«Eravamo tutti giovani, anche se c’erano già magistrati di esperienza che erano punti di riferimento come Armando Spataro o Ferdinando Pomarici. Uno dei procuratori aggiunti era Bruno Siclari, che dopo è diventato il capo della prima Dna.
Aveva fama di burbero, ma in realtà era uno molto attento».
Quando ha iniziato ad occuparsi di mafia?
«Quattro anni dopo, appena tornato a Napoli. Era stata istituita da pochissimo la Direzione distrettuale antimafia. Ero lì quando ci è arrivata la notizia dell’attentato a Capaci».
Cosa ricorda di quel momento?
«Ci siamo riuniti tutti, sconvolti. Per tutti, quell’attentato era una dichiarazione di guerra aperta. Cosa nostra ha voluto uccidere alcuni uomini dello Stato con modalità stragista. Quelle modalità sono un messaggio da tenere in considerazione».
Cosa sappiamo e cosa non sappiamo di quella stagione?
«Sappiamo che Cosa nostra è stata esecutrice e mandante di quegli attentati. E grazie al lavoro della procura di Reggio Calabria sappiamo che la ’Ndrangheta ha avuto un ruolo e sono emersi numerosi soggetti che hanno operato tanto in Sicilia, come in Calabria. Adesso le indagini stanno proseguendo per accertare il ruolo di formazioni istituzionali o para-istituzionali».
Parliamo di settori dell’intelligence?
«Anche. Pezzi di apparati investigativi e di sicurezza»
Sono passati trent’anni ed ancora non è stata fatta piena luce su quella stagione.
«Procediamo con cautela. Bisogna evitare nuovi depistaggi alla Scarantino, per arrivare a una ricostruzione organica ogni conquista è elemento che va vagliato dai vari uffici - Palermo, Catania, Caltanissetta, Reggio Calabria, Firenze - coinvolti nelle indagini. In più è passato molto tempo».
Questo cosa significa?
«Che le dichiarazioni dei pentiti vanno vagliate con ancora più attenzione e certi accertamenti costano più fatica. Ma si possono e si devono fare e i risultati stanno arrivando» .
Nella storia dell’Italia quelle stragi cosa hanno significato?
«Hanno cambiato la storia del Paese anche perchè hanno creato un senso comune di condanna e la consapevolezza della necessità di reagire alla sopraffazione mafiosa».
E per lei? Ha iniziato ad avere più
paura nell’indossare la toga?
«No, per un motivo semplice. Chi vive nella giustizia, nel mondo del contrasto alle mafie sa di rischiare. Mette in conto che qualcosa possa succedere, ma si finisce per vivere tutto in modo molto naturale. Lo si sa, lo si assume e ci si convive».
C’è chi sostiene che dopo la straordinaria risposta dello Stato, Cosa nostra sia stata fortemente ridimensionata.
«Ed è sbagliato e pericoloso. Quasi ci scrolla dalla responsabilità del contrasto alle mafie. Cosa nostra ha solo cambiato strategia, scegliendo l’immersione, l’invisibilità, come la ’Ndrangheta aveva fatto ancor prima. Oggi il ragionamento utilitaristico delle mafie è non fare rumore, muoversi sottotraccia, muoversi nel settore dell’economia legale e illegale».
La pandemia è stata un’occasione o la crisi ha colpito anche imprese e attività di mafia?
«Per lo più occasione, perchè ha consentito ai clan di reinvestire le proprie ricchezze nei settori più in difficoltà. Quello turistico-alberghiero, o quello della ristorazione, ci risultano ad altissimo rischio infiltrazione».
Gli strumenti per individuare i capitali mafiosi esistono. Come mai l’infiltrazione dei clan nell’economia reale continua a essere un pericolo concreto?
«Da tempo le mafie hanno a disposizione professionisti e colletti bianchi in grado di disegnare strategie economiche e finanziarie. I clan entrano nelle aziende con il proprio denaro ma spesso senza che neanche si modifichi la compagine societaria. Il vecchio titolare diventa di fatto solo un prestanome di un’azienda che non controlla più, anche se dai documenti risulta ancora tale».
Anche il Pnrr rischia di finire per essere preda delle mafie?
«Questi fondi saranno fondamentali per la ripartenza del Paese e anche per questo è necessario un monitoraggio più che attento. Non basta un controllo cartolare, basato su documenti, bisogna andare fisicamente a vedere cosa succeda nelle strade, sui cantieri. Bisogna vigilare e per questo è necessaria la collaborazione da parte di tutti».
Il che significherebbe?
«Gli imprenditori devono sostenere un progetto di legalità, Confindustria, Confcommercio, Coldiretti, tutte le associazioni di categoria sono chiamate a vigilare, e i cittadini anche. Ne va del futuro di tutti».
Territori ad alta densità mafiosa e economicamente fragili come la Sicilia rischiano di essere più esposti?
«La Sicilia è la regione che più di tutte ha subito la violenza dei clan, ha sperimentato sulla propria pelle la compressione delle libertà per l’arroganza di Cosa nostra. Questo ha creato una coscienza antimafia radicata, da questo punto di vista è avanti rispetto a molti territori».
Dal punto di vista istituzionale ci si sta attrezzando?
«Di recente è stato firmato un protocollo con la Regione Lazio che prevede la trasmissione alla Dia e alla Dna di tutti gli incartamenti relativi alle gare d’appalto. Questo significa avere a disposizione strumenti maggiori e più pervasivi per i controlli».
Qual è il vantaggio?
«Se fosse esteso a tutte le regioni si potrebbe fare un monitoraggio capillare, sopperendo alla storica mancanza di una banca dati nazionale degli appalti che permetta di individuare tutti i soggetti che intervengono a tutti i livelli».
Qualche altra Regione o istituzione si è fatta avanti?
«Al momento no».
Crede che la pandemia abbia fatto passare in secondo piano il pericolo delle mafie?
«Non credo. In ogni caso, è un lusso che non ci possiamo permettere».
Negli ultimi due anni ha dovuto coordinare la direzione nazionale antimafia in piena pandemia.
«Il Covid19 ha reso più complesso il coordinamento fra i magistrati di diverse procure. Non esiste ancora un canale di comunicazione sicuro, per le nostre riunioni abbiamo utilizzato gli strumenti che hanno avuto tutti a disposizione. Questo ha creato anche un problema di sicurezza. C’era difficoltà a fare certi nomi, rivelare certi passaggi, per timore che qualcuno potesse ascoltare quelle discussioni».
Chi intercetta temeva di essere intercettato? Quasi un paradosso.
«Le mafie hanno sempre cercato di conoscere in anticipo le mosse di chi le contrasta. Una volta c’erano le loro sentinelle davanti a questure e comandi. Non mi stupirebbe scoprire che i clan possano contare su sentinelle “tecnologiche”».
Dopo tanti anni di attività, il 18 febbraio andrà in pensione. Ha già programmi?
«In realtà non ancora. Certo è difficile immaginare di stare fermo. Magari scriverò un libro. Ma ci penserò il 19 febbraio».
La Repubblica Palermo, 30/1/22
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