Piersanti Mattarella, presidente della Regione, con Sandro Pertini allora presidente della Repubblica
PIERLUIGI BASILE
Il 6 gennaio del 1980, Epifania, era una domenica, l' ultimo giorno di festa prima del rientro alle incombenze quotidiane. Piersanti Mattarella, come consuetudine festiva, sarebbe andato a messa con la sua famiglia ma senza la scorta, nonostante Palermo fosse ormai da alcuni anni la città dei «delitti eccellenti» e lui avesse ricevuto allarmanti minacce.
In quel momento Mattarella era ancora il presidente della regione in carica, anche se il 18 dicembre i socialisti si erano defilati dalla compagine che lo sosteneva causando una seconda crisi dopo quella aperta dal Pci a marzo. Per la risposta democristiana all'ultimatum della sinistra, che chiedeva all'unisono l'ingresso dei comunisti nel governo, si attendeva l'esito del Consiglio nazionale del partito di febbraio, che, secondo i pronostici, avrebbe decretato un rilancio del «compromesso storico» sanzionato dall'elezione di Mattarella come vicesegretario.
Le cose andarono diversamente con l'approvazione del noto «preambolo» e non sapremo mai cosa sarebbe successo senza quella tragica epifania. L'impasse istituzionale e il suo difficile sbocco non erano gli unici elementi di turbamento per il presidente che in quegli ultimi mesi del 1979 aveva affrontato a viso aperto due questioni molto spinose: la prima era stata la rimozione di Rosario Cardillo, assessore repubblicano della sua stessa giunta, in seguito alla scoperta di un sistema illecito di controllo degli appalti pubblici da questi coordinato; la seconda invece riguardava una ispezione straordinaria, disposta sul Comune di Palermo, che profanava il «santuario» degli interessi affaristico-mafiosi facendo luce su un appalto per la costruzione di 6 scuole aggiudicato da alcune ditte riconducibili al capomafia Rosario Spatola. Il clima insomma si era fatto sempre più rovente e Mattarella, a fine ottobre, aveva deciso di incontrare a Roma il ministro dell'Interno, Virginio Rognoni (anch'esso esponente Dc), per avere con lui un colloquio riservato sulla delicata situazione siciliana. Secondo quanto verrà rivelato ai giudici dal ministro soltanto nel giugno 1981, il presidente aveva fatto allora espliciti riferimenti alle azioni di contrasto alla mafia promosse dal suo governo e alle difficoltà incontrate nel suo stesso partito, dove lo preoccupava in particolare il ritorno di Vito Ciancimino. L'unica persona informata del viaggio di Mattarella era stata la sua segretaria che questi incontrò al rientro e a cui rivolse le seguenti parole: «Se dovesse succedermi qualcosa di molto grave per la mia persona, si ricordi questo incontro con il ministro Rognoni, perché a questo incontro è da collegare quanto di grave mi potrà accadere». Ma la morte camminava accanto a Mattarella già dall'estate precedente, quando - secondo la testimonianza del pentito Francesco Marino Mannoia - Stefano Bontade e altri «uomini d'onore» avevano incontrato in una tenuta di caccia nel catanese Giulio Andreotti, il segretario Dc siciliano Rosario Nicoletti, Salvo Lima e i cugini Salvo, e in quell'occasione si erano lamentati della linea politica perseguita da Mattarella chiedendo un radicale cambio di rotta. Dunque gli episodi dell'autunno, sempre secondo i pentiti (ma su questi episodi non si sono trovati altri riscontri) erano stati la dimostrazione palese che il «consiglio» non era arrivato a Mattarella o che le pressioni fatte su di lui non avevano frenato il suo slancio rinnovatore. La mafia ne avrebbe presto tratto le debite conseguenze. Il corpo del presidente crivellato dai proiettili dentro la sua auto, proprio davanti l'abitazione di via Libertà, venne immortalato nelle terribili foto dell'edizione straordinaria de "L' Ora", mentre nel racconto della moglie Irma Chiazzese, che si trovava proprio accanto a lui, rivivevano le sequenze agghiaccianti dell'omicidio, con il giovane killer che si era avvicinato alla macchina in sosta sul marciapiede e aveva fatto fuoco dopo un breve attimo di indecisione. L'ultima illustre vittima della stagione di sangue apriva una angosciante domanda: perché e chi aveva insanguinato quell'Epifania? L'altalena delle prime interpretazioni oscillava tra il delitto di mafia e l'omicidio di stampo terroristico, anche se nulla sembrava certo. A rendere le acque ancora più torbide concorsero le telefonate fatte, già poche ore dopo l'omicidio, ad alcuni organi di stampa: le rivendicazioni dei sedicenti "Nuclei Fascisti Rivoluzionari", di "Prima Linea" e "Brigate Rosse", ripetevano lo stesso copione del 9 marzo 1979 quando era stato ucciso il segretario provinciale della Dc Michele Reina. Stavolta però anche altri elementi (a cominciare dalle modalità dell'omicidio) facevano propendere per la pista terroristica che sulle prime sembrò la più praticabile. Leonardo Sciascia sulle pagine del "Corriere della Sera", per esempio, ravvisava delle analogie di fondo con il contesto politico in cui maturò il delitto Moro, rilevando come in entrambi i casi si era giunti ad un bivio non più rinviabile. Anche il direttore del "Giornale di Sicilia", Lino Rizzi, affermava seccamente «Questo è terrorismo», prefigurando un nuovo fronte di eccidi e morte in Sicilia, dove si sarebbe potuta realizzare anche una «saldatura organica» tra estremismo eversivo e Cosa nostra. La diffusa difficoltà a leggere quanto era accaduto trovò espressione solenne nell'omelia pronunciata dal cardinale Pappalardo l' 8 gennaio: «Una cosa sembra emergere sicura ed è impossibile che il delitto sia attribuibile a sola matrice mafiosa: ci devono essere anche altre forze occulte esterne agli ambienti, pur tanto agitati, della nostra Isola». La ridda di dichiarazioni delle forze politiche, affidate ai comunicati ufficiali e ai dibattiti straordinari nelle aule di Camera, Senato e Ars, riflettevano la confusione nel Paese e andavano dalla cautela democristiana, che preferiva usare il termine neutro «delitto politico», ai processi di convergenza e imitazione che secondo i comunisti siciliani si erano realizzati in quel frangente tra «forze criminali, forze mafiose oppure di killer appartenenti a questo o quell'altro gruppo terroristico», fino ad arrivare al Partito di Unità Proletaria che preferiva parlare di «terrorismo mafioso», nel senso di una violenza mirata a stabilizzare il sistema di potere esistente e preservare lo status quo. Sin dalle prime indagini fu chiaro che il movente dell'omicidio andava cercato nell'attività politica di Mattarella, specie nei due anni della sua presidenza. Tuttavia restavano e restano, nonostante i 29 anni trascorsi e tre gradi di giudizio, non poche zone d'ombra attorno a quel 6 gennaio: le complicità e i silenzi della politica in parte confermate dal processo Andreotti, le inefficienze nella conduzione dell'inchiesta, gli intrecci mafia-neofascismo armato che avevano portato nel 1989 Giovanni Falcone a spiccare un mandato di cattura nei confronti dei terroristi neri Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, indicati quali esecutori materiali del delitto e in seguito prosciolti dalle accuse. Oggi non può bastare la condanna collettiva emessa dai giudici contro i vertici della "Commissione" di Cosa nostra, indicati quali mandanti dell'assassinio di Piersanti Mattarella. Bisognerà ancora cercare in fondo al buio prima di spingere la notte più in là.PIERLUIGI BASILE
La Repubblica, 06 gennaio 2009
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