domenica, dicembre 12, 2021

La caduta. Ultima notte al Cremlino


DI ENRICO FRANCESCHINI

Vsiò normalno. Tutto normale: nel senso di tutto bene, non preoccupatevi, non mi butto dalla finestra. Mikhail Gorbaciov ci congedò con queste rassicuranti parole, nell’ultima intervista al Cremlino dentro l’ufficio che aveva occupato per sei anni come Segretario Generale del Pcus e presidente dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, chiamate per brevità con l’acronimo Urss: gli incarichi da cui aveva dato le dimissioni la sera prima con un discorso televisivo al Paese. Era il 26 dicembre 1991.

Da settimane, come capo dell’ufficio di corrispondenza diRepubblica a Mosca, rincorrevo quel colloquio recandomi quasi ogni giorno sulla Piazza Rossa coperta di neve per entrare nell’ex-fortezza zarista, un imponente maniero disegnato nel 1482 dall’architetto bolognese Aristotele Fioravanti. 

L’immensa piazza, con al centro il Mausoleo di Lenin, su un lato i grandi magazzini Gum e sull’altro la cattedrale di San Basilio con le sue guglie colorate, era deserta. Un singolo miliziano con il colbacco e il pastrano incrostati di ghiaccio, in servizio di guardia alla porta Spasskaja del Cremlino, controllava il mio nome su un elenco e mi faceva entrare. Oltrepassati i giardini, salite ampie scalinate, percorsi lunghissimi corridoi, raggiungevo lo studio di Andrej Graciov, uno dei più stretti collaboratori di Gorbaciov, senza incontrare anima viva: sembrava che la cittadella fortificata, primo degli anelli concentrici che formano la capitale russa, fosse già stata abbandonata nell’imminenza dell’atto finale che avrebbe chiuso l’era iniziata oltre settant’anni prima con la rivoluzione bolscevica.

L’autunno dell’uomo dellaperestrojka era stato di crescente solitudine: dopo il golpe del 19 agosto precedente per provare a rovesciarlo, i suoi tentativi di mantenere con qualche ruolo il potere e conservare un simulacro della nazione su cui aveva governato apparivano destinati a fallire. Come era puntualmente accaduto all’approssimarsi dell’inverno, lasciandolo effettivamente solo nel suo palazzo insieme a un pugno di fedelissimi. Dopo due ore di fitta conversazione, seguita al momento dei saluti da un aneddoto su una vacanza in Sicilia con la moglie Raissa tanti anni prima, quando era soltanto l’oscuro segretario regionale del Pcus a Stavropol, Gorbaciov doveva avere letto nei miei occhi e in quelli della mia collega Fiammetta Cucurnia preoccupazione per la sua sorte. «Vsjò normalno », tutto a posto, ci disse dunque sulla porta dell’ufficio. Eppure, a dispetto di una lotta senza quartiere che si trascinava da anni, moltiplicata dall’effetto della caduta del muro di Berlino nel 1989 e dal fallito putsch dell’estate ’91 di cui veniva considerato più complice magari involontario che vittima, non c’era nulla di “normale” nella vicenda di cui la storia, come qualche volta accade ai giornalisti, ci aveva reso testimoni. 

Il più grande Stato della terra 

Scompariva in un colpo il più grande Stato della terra, un impero multietnico esteso attraverso undici fusi orari, dal confine con la Polonia a quello con la Cina e, nello stretto di Bering, con l’America. Le 15 repubbliche sovietiche, tre slave, tre baltiche, tre caucasiche, una di etnia romena, cinque asiatiche, diventavano nazioni indipendenti. L’arsenale nucleare che durante la guerra fredda aveva minacciato gli Stati Uniti («l’unico paese in grado di distruggerci militarmente» è stata a lungo la definizione che ne dava Washington) e l’Europa occidentale rimaneva spartito fra Russia ed Ucraina, con i rischi di una guerra intestina. E Mikhail Gorbaciov, colui che aveva assistito alla liberazione dell’Europa orientale senza mandare i carri armati a reprimerla come fecero i suoi predecessori, il leader che aveva dato ai russi la libertà di stampa ed espressione (laglasnost ) e una bozza di riforme democratiche (laperestrojka , con le prime elezioni libere e multipartitiche dal 1917 in poi), premiato dall’Occidente con il Nobel per la pace appena qualche mese prima, veniva sloggiato senza complimenti dal suo rivale e successore, Boris Eltsin, che come presidente della Russia, la più grande e potente delle quindici ex-repubbliche sovietiche, il giorno dopo avrebbe occupato l’ufficio in cui si era svolta la nostra intervista. 

No, non era normale: era incredibile per 25 milioni di cittadini sovietici di etnia russa scoprire che dal mattino seguente si sarebbero sentiti stranieri mal sopportati in Estonia o in Kazakhstan, in Ucraina o in Azerbaigian. Né sembrava normale, a milioni di seguaci sparsi per il pianeta, che la casa madre del comunismo mondiale, una delle ideologie dominanti del XX secolo, fosse crollata così rapidamente. C’erano stati i morti, a decine, nel Caucaso e nel Baltico, durante le ribellioni del 1990-‘91 represse nel sangue dall’Armata Rossa, quando Gorbaciov ondeggiava tra le pressioni dei radicali che volevano spazzare via ogni traccia di comunismo e quelle dei conservatori che volevano difenderlo da ogni cambiamento. Tre manifestanti avevano perso la vita anche nelle strade di Mosca, schiacciati dai cingoli dei carri armati, nei tre giorni del fallimentare putsch d’agosto contro Gorbaciov. Ma la fine era stata incruenta. Del resto lo fu anche l’inizio, mi avrebbe raccontato anni dopo a San Pietroburgo un testimone diretto, l’illustre letterato e dissidente (imprigionato 4 anni nel Gulag) Dmitrij Likachov: «Non ricordo niente della Rivoluzione d’ottobre perché non c’è niente da ricordare. Nell’ottobre 1917 non avvenne una rivoluzione, ma un golpe, e la gente coinvolta fu così poca che nessuno se ne accorse». Anche se poi la guerra civile fra rossi e bianchi durò due anni, si dice che nell’ottobre ‘17 l’avvento dell’era comunista fu comunicato al resto dell’Impero russo “per telegramma”. In modo analogo, nel dicembre ’91 la popolazione sovietica apprese da un bollettino via radio che l’Unione Sovietica non esisteva più. 

L’8 dicembre 1991 la tv di Stato annuncia ai 294 milioni di abitanti delle 15 repubbliche sovietiche che l’Urss ha legalmente cessato di esistere. Due settimane dopo, la notte di Natale, la bandiera rossa verrà ammainata sul Cremlino e l’ultimo segretario generale del Pcus, Mikhail Gorbaciov, si dimetterà dal partito e dalla guida del Paese. 

Ripercorriamo quei giorni attraverso la testimonianza di chi li visse in prima persona a Mosca. Ezio Mauro, Enrico Franceschini e Fiammetta Cucurnia ci riportano nella notte di ghiaccio e neve in cui si compì l’impensabile 

Così, nel dicembre di trent’anni fa, con il Paese allo stremo, si dissolse l’Urss e si concluse l’era cominciata nel 1917 con la rivoluzione bolscevica. 


di Carlo Bonini coordinamento editoriale e testo Fiammetta Cucurnia, Enrico Franceschini ed Ezio Mauro


La Repubblica, 12 dicembre 2021

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