Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
Danilo Di Lorenzo e Manfredo Gennaro
Mentre le mafie sono nella posizione più forte di sempre, la legislazione antimafia rischia di essere completamente smantellata.
Paolo Borsellino in uno dei suoi ultimi drammatici interventi pubblici prima della Strage di Via D’Amelio, intervenendo il 15 giugno 1992 ad un incontro pubblico organizzato da “MicroMega” e da “LA RETE” a Casa Professa raccontò in che modo “iniziò a morire Giovanni Falcone”: quando il Csm, grazie anche a un “Giuda” il cui nome è ormai noto, gli preferì Antonino Meli per la successione a Caponnetto alla guida dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo.
«Giovanni Falcone – queste le parole di Paolo Borsellino – dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato ed al quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Csm, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo, nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto, e ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse».
A noi sembra che ci siano dei motivi più che fondati per ritenere che lo stesso stia rischiando di accadere, se non è già troppo tardi, per la lotta alla mafia condotta dalla magistratura. La stagione dell’emergenza sanitaria, infatti, rischia seriamente di chiudersi all’insegna di un paradosso che balza agli occhi: le mafie nella posizione più forte di sempre e la legislazione antimafia completamente smantellata.
Di mafia si parla sempre meno e nel modo sbagliato, approfittando di un’opinione pubblica volutamente distratta da un sistema mediatico completamente genuflesso al governo Draghi e alle sue “compatibilità di sistema”.
Eppure la mafia c’è, si espande, si infiltra nel tessuto produttivo e agli altissimi piani della politica, dell’economia, degli apparati statali: la disattenzione pubblica è l’humus ideale per la sua proliferazione. Potremmo parlare di pandemia mafiosa, senza però che nessuno si ponga minimamente il problema di come contrastarla. Anzi.
Se ha ancora un senso parlare di mafia nel 2021, è necessario cercare di farlo per il possibile con cognizione di causa, tenendone presente l’evoluzione e la morfologia attuale, altrimenti si rischia di fare un esercizio di vuota retorica, di quelli che già dilagano in fiction, celebrazioni e passarelle che ormai tutto sono tranne antimafia.
La mafia, seguendo una strategia ben precisa ed elaborata da menti particolarmente raffinate, ha abbandonato da anni il volto truce e violento che troviamo in molte fiction, il quale resta esclusivo appannaggio di quella che potremmo definire “bassa macelleria criminale”, mentre il ceto medio-alto è tornato alla sua vocazione di sempre: l’imprenditoria e l’alta finanza. L’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, a tale proposito, ha parlato di una “selezione della specie”, dove ad avere la meglio sono state le mafie “mercatiste” in grado di contare su relazioni e collusioni ai massimi livelli e capaci di inserirsi nelle dinamiche dell’economia globale finanziarizzata.
Già nel 1992 un Collaboratore di Giustizia rivelatosi fondamentale come Leonardo Messina, audito dalla Commissione Parlamentare Antimafia, spiegò come “Cosa Nostra sta cambiando, si sta rigenerando. Si spoglierà di tutti gli uomini d’onore, un po’ perché sono in carcere, un po’ perché con la repressione li arresteranno. In un certo senso le stiamo facendo un favore con gli arresti. […] Stanno cercando una nuova struttura di non presentazione che sostituirà Cosa Nostra”, aggiungendo che “molti degli uomini d’onore appartengono alla Massoneria perché è lì che si possono avere contatti con gli imprenditori, con le istituzioni, con quelli che amministrano il potere”.
Parole profetiche, parole inascoltate. Ed effettivamente così è stato.
Quando parliamo di mafia oggi parliamo di una organizzazione che è parte integrante di un sistema criminale più ampio, in cui le alte sfere criminali si dedicano ai reati tipici dei colletti bianchi: dalla corruzione ai reati tributari, alle false fatturazioni, al riciclaggio, e via elencando. Reati economico-finanziari che, sebbene vengano percepiti come meno pericolosi sul piano sociale, nella realtà dei fatti si rivelano forse perfino più esiziali di quelli che implicano l’uso visibile della violenza e sono micidiali per la democrazia, inquinando la vita pubblica, aggravando le disuguaglianze, drenando risorse dallo stato sociale e quindi danneggiando la collettività, alterando gli equilibri di mercato e rendendo impossibile un’imprenditoria non ammanicata o collusa, colpendo le fasce più deboli della società.
La relazione semestrale della DIA 2020, parlando della ‘Ndrangheta, pone l’accento proprio sull’aspetto imprenditoriale dell’organizzazione: “Gli esiti delle più importanti inchieste concluse nel semestre restituiscono l’immagine di una ‘ndrangheta silente e più che mai pervicace nella sua vocazione affaristico imprenditoriale, nonché saldamente leader nei grandi traffici di droga”.
Riguardo a Cosa Nostra, la trasformazione è stata ancora più evidente, con il passaggio dalle “teste calde” funzionali ad una determinata fase storica caratterizzata dalla “strategia della tensione” e dal mondo diviso in due blocchi – i Riina, i Provenzano, i Graviano – ad una mafia raffinatissima e quasi invisibile a vocazione imprenditoriale-istituzionale come quella di Matteo Messina Denaro e del suo gruppo, in stretta simbiosi con i Guttadauro, con cui i Messina Denaro hanno stretto vincoli di sangue, e il mondo osceno della borghesia mafiosa palermitana e trapanese. Alla base del mutamento un’intuizione: la mafia per l’opinione pubblica esiste solo se commette omicidi, stragi o fatti eclatanti; se la mafia agisce in modo silente, pur essendo in realtà operativa e parte integrante, quando non decisiva, del sistema-paese, gran parte dell’opinione pubblica non percepisce la sua presenza e la sua forza.
Secondo la relazione della Organized Crime Portfolio del 2015 nell’Unione europea le mafie hanno un giro d’affari di circa 110 miliardi di euro, quanto l’1% del PIL dei vari Paesi; per la sola ‘ndrangheta si stima un fatturato annuo di 55 miliardi. Cifre che, non è un’affermazione temeraria, permettono non solo di condizionare pesantemente le politiche dei governi nazionali, ma ormai addirittura di generarle.
Il nostro paese nel corso degli anni ha sviluppato la legislazione antimafia più evoluta al mondo. Potremmo distinguere due fasi: il riconoscimento legislativo del reato di associazione mafiosa (art. 416 bis del codice penale), introdotto nel 1982 con l’approvazione della legge Rognoni-La Torre, che prevede anche la confisca dei beni per i mafiosi e i loro complici nel riciclaggio. Una seconda fase è stata costituita dalle norme ideate da Falcone e approvate nella stagione successiva alle stragi del ‘92-’93: la legge sui pentiti, il 41 bis e l’ergastolo ostativo (previsto dall’art. 4 bis o.p.), il voto di scambio politico-mafioso. Dagli anni ‘90 la magistratura ha anche iniziato a contestare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa (si pensi ai casi Contrada, D’Antone, Dell’Utri).
Tuttavia la legislazione attuale, se pure ancora fastidiosa e scomoda per la mafia, risulta già ampiamente inefficace per colpire a fondo una mafia diversa e più evoluta di quella conosciuta storicamente e in particolare negli anni ‘80.
Ma proprio quando si rendeva necessario un salto di qualità nella normativa antimafia, che consentisse di colpire anche quella imprenditoriale dei colletti bianchi fino a debellarla e con essa tutta l’area grigia composta da imprenditori, uomini dello stato, professionisti, assistiamo invece all’assurdo smantellamento pressoché totale della normativa vigente.
Tutto ciò proprio mentre sono in arrivo i finanziamenti del Recovery Fund che sarebbero dovuti servire al Paese per rilanciarsi dopo la crisi economica e sociale correlata all’emergenza sanitaria ma che potrebbero invece costituire un’occasione irripetibile per la mafia per comprarsi l’Italia e imprimere definitivamente il suo timbro criminale sul Paese.
È necessario riflettere attentamente su alcuni fatti e sulle conseguenze che produrranno. Alcune sentenze della CEDU e della Corte Costituzionale (in particolare l’ordinanza n. 97-2021) hanno di fatto abolito l’ergastolo ostativo per gli “irriducibili” che rifiutano di collaborare con la giustizia, concedendo il limite di tempo di un anno al parlamento per legiferare in materia, esaurito il quale la decisione sulle scarcerazioni sarà rimessa di volta in volta ai magistrati di sorveglianza. Il governo Draghi, inoltre, nel decreto-legge attuativo del PNRR dello scorso 27 ottobre ha previsto, senza che fossero precedute da alcun dibattito pubblico, delle modifiche al sistema delle misure di prevenzione patrimoniali antimafia derivate dalla Rognoni-La Torre che rendono più farraginose e complesse le procedure di sequestro e le interdittive antimafia, e prevedono la “prevenzione collaborativa” senza sequestro ablativo per le imprese che agevolano “occasionalmente” (sic!) la mafia.
Nel concreto, se il tentativo attuale di smantellamento della legislazione antimafia dovesse andare in porto, rischiamo di trovarci nel giro di pochi mesi con l’abolizione del sistema dei Collaboratori di Giustizia, poiché se i benefici carcerari verranno concessi anche agli “irriducibili”, non si vede più alcuna ragione perché inizino nuove collaborazioni. La fine della figura del Collaboratore di Giustizia comporterà anche una sensibile diminuzione della conoscenza sulle dinamiche più interne e recenti al sistema criminale.
È prevedibile che almeno un centinaio di boss “irriducibili” che hanno partecipato alle stragi del ‘92-’93 e responsabili di crimini particolarmente efferati escano dal carcere, rafforzando soprattutto simbolicamente la forza di intimidazione e l’aura di invincibilità e impunità della mafia.
Ma il pericolo più grande viene dal totale via libera ai crimini dei “colletti bianchi” e sul versante economico-finanziario, dove i pochi ostacoli che restavano al riciclaggio degli immensi fiumi di denaro della mafia stanno saltando.
“Per aver denunciato questa verità – torniamo al discorso di Paolo Borsellino a Casa Professa del 25 giugno 1992 – io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma, quel che è peggio, questa iniziativa che all’inizio sembrava soltanto nei miei confronti del Consiglio Superiore, immediatamente scoprì qual era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io l’avevo pure messo nel conto, perché ero convinto che l’avrebbero eliminato comunque. Almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere e lo deve conoscere. Il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio”.
Lo scenario che abbiamo realisticamente tratteggiato porta con sé il rischio concreto di una deriva difficilmente reversibile. A meno che l’opinione pubblica e la coscienza civile del nostro Paese non “facciano il miracolo” con un’ondata di indignazione, passione e lotte civili. In caso diverso, si abbia almeno il coraggio e la dignità di far morire la lotta alla mafia davanti a tutti, assumendosene chiaramente la responsabilità.
Micromega, 24/11/2021
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