Il ministro Roberto Cingolani ascolta Greta |
di LUIGI MANCONI
Lo sappiamo: la retorica ne uccide più della spada. Eppure, il fatto che il premier conservatore Boris Johnson, aprendo i lavori di Cop26, abbia citato la critica di Greta Thunberg al "bla, bla, bla", qualcosa significa. Certo, una civetteria, una blandizie paternalistica, un ammiccamento opportunistico, ma anche un riconoscimento obbligato.
L'iniziativa di Greta è stata considerata, in Italia, attraverso due stereotipi perfettamente speculari: il primo legge l'ecologia in chiave infantile e mitica, come rivendicazione di una innocenza naturalistica e salvifica; l'altro presenta l'ambientalismo come una ideologia catastrofista e nichilista, anti-moderna e anti-industriale. Se, invece, il metodo Greta venisse analizzato attraverso l'approccio della scienza della politica, emergerebbe come la mobilitazione di Fridays for Future rappresenti - certo parzialmente e per le sole democrazie occidentali - un importante fattore di innovazione dell'azione pubblica e di alcune categorie della politica.
La foto che ritrae il ministro della Transizione ecologica, il quasi sessantenne Roberto Cingolani, ascoltare "in ginocchio" la diciottenne Greta, durante il pre-Cop di Milano, può suscitare lo spirito di patata (avrebbe detto mia madre) di alcuni babbei: ma sarebbe come ironizzare se il ministro Giancarlo Giorgetti si chinasse per cogliere le parole degli operai licenziati della Gkn di Campi Bisenzio; o se il premier Mario Draghi si piegasse al capezzale dei ricoverati per Covid.
Il possibile tratto di ipocrisia o "dissimulazione onesta" di tali gesti non occulta il fatto che o la politica si mette in ascolto del "sentimento del mondo" (sofferenze e angosce, aspettative e incubi) o è destinata a perire e a vedere esaurirsi il suo senso più vero.
È diventata merce corrente fino alla banalità un'affermazione del teologo statunitense James Freeman Clarke, poi attribuita ad Alcide De Gasperi, che recita: "Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni". Ecco, alla radice di una politica autenticamente democratica si trova una concezione del tempo e dello spazio - fondamenti cruciali di qualsiasi strategia del bene pubblico - che non si riduce all'immanentismo del qui e ora. E che non si mortifica nell'angustia dello sguardo breve e del fiato corto, interamente concentrati sul perimetro chiuso del localismo e sulla prospettiva rattrappita del presente. Il che è proprio del sovranismo, che contrappone l'ego-logia dell'interesse autoreferenziale immediato, all'ecologia di una politica che riconosce l'interconnessione tra i popoli e i loro destini e il vincolo indissolubile tra le generazioni.
Tutto ciò, sia chiaro, è terribilmente faticoso e, per certi versi, doloroso. Non prevede alcun automatismo e, tanto meno, un traguardo a portata di mano. Il G20 e la Cop26 mostrano inequivocabilmente quanto la transizione ecologica non sia in alcun modo "un pranzo di gala". Ma è, tuttavia, un passaggio imprescindibile. Finalmente, lo sviluppo sostenibile sembra affermarsi non come una gracile utopia, bensì come una inesorabile necessità: alla quale, evidentemente, è possibile sottrarsi - per incapacità o per ottusità - ma al prezzo di precipitare "sull'orlo di un baratro" (così il segretario generale dell'Onu, António Guterres). E c'è un'altra lezione "politologica" offerta da Fridays for Future: questo movimento, come tutte le mobilitazioni collettive di progresso - sia quelle di emancipazione sociale sia quelle di riforma religiosa - esige un mutamento culturale e in qualche modo etico (un certo "rinnovamento spirituale") di chi vi partecipa. Il che non costituisce, necessariamente, una istanza moralistica, né una deviazione autoritaria: rappresenta piuttosto una componente del processo di cambiamento che, per essere tale, richiede radicalità. Un esempio solo e in apparenza modesto: la legge sulla raccolta differenziata dei rifiuti (1997), promossa dall'allora ministro dell'ambiente, il Verde Edo Ronchi, ha avuto conseguenze importanti. E ha imposto significativi mutamenti negli stili di vita, nei consumi e nel senso comune degli italiani. O, meglio, di una parte di questi, che hanno modificato più o meno sensibilmente, per obbedire alla legge, le proprie consuetudini.
È ciò che su vasta scala e con notevoli sacrifici verrà richiesto, non per vincere la battaglia sui cambiamenti climatici, ma almeno per contrastarli con maggiore efficacia.
Oggi, per la combinazione di più circostanze favorevoli, una tale prospettiva non è impossibile. E l'ipotesi di una transizione ecologica, capace di non contrarre lo sviluppo e di non ridurre l'occupazione - e, tendenzialmente, di incrementarla - è un'opzione seria. Certamente ardua e, nell'immediato, suscettibile di determinare pesanti costi sociali: e una lacerazione che richiede di essere sanata e risarcita, per quanto faticoso sia. Per l'Italia la prova è ancora più temibile, dal momento che il nostro Paese è afflitto da una secolare e antropologica carenza di spirito civico e di senso della comune responsabilità. Ma esistono alternative razionali al disastro annunciato?
La Repubblica, 2 novembre 2021
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