domenica, novembre 21, 2021

IL PERSONAGGIO. Don Luigi Ciotti: “La mia lotta alle mafie passa dal cuore dei ragazzi”

Don Luigi Ciotti

di 
ALESSIA CANDITO

«Tra coltura e cultura cambia solo una vocale, ma entrambe richiedono costanza e impegno e per trovare nutrimento devono piantare radici. La coltura nella terra, la cultura nelle coscienze». 

Settantasei anni, da più di trenta in prima linea nella lotta ai clan, per don Luigi Ciotti, cresciuto a Torino, Palermo è «una città con cui ho un rapporto vivo, viscerale, che fa parte della mia anima, del mio paesaggio emotivo ed esistenziale». 

La conosce da quando girava l’Italia e l’Europa con il gruppo Abele per raccogliere i cocci del boom dell’eroina, ne ha fatto la sua trincea negli anni delle stragi, insieme a sopravvissuti e familiari come Rita Borsellino ha insegnato che memoria — quella vera — significa impegno, coscienza, costanza. Forse anche per questo ha scelto di esserci per il battesimo ufficiale del progetto che nei prossimi tre anni porterà nelle scuole italiane oltre 50mila piantine nate dalle talee dell’Albero Falcone. 

Per le idee dell’antimafia sarà facile diffondersi come le talee? 

«Le idee non sono “cose” ma sementi che devono trovare terreni e contesti fertili per maturare e generare nuove pratiche e nuove forme di vita. 

Ecco perché quelle talee non devono essere un semplice simbolo, ma frammenti di memoria viva, incandescente. La lotta contro le mafie è un impegno innanzitutto culturale che parte dalla coscienza di ciascuno di noi, dalla consapevolezza del bene comune e della responsabilità di custodirlo e promuoverlo». 

Che ruolo hanno i ragazzi in questa battaglia? 

«Quando trovano punti di riferimento credibili — insegnanti, associazioni — diventano più consapevoli. La strada l’ha indicata don Pino Puglisi. Noi dobbiamo accompagnarli — non portarli — e i cambiamenti si vedono. Ma lo dobbiamo fare con tutti. Bisogna raggiungere anche quelli che la scuola ha perso per strada. Se vogliamo davvero combattere le mafie, è lì che è necessario intervenire, riempiendo quello spazio di riferimenti, opportunità, progetti, proposte». 

Esistono gli strumenti per farlo? 

«La Costituzione è il vero testo antimafia, perché i clan si combattono difendendo e promuovendo la giustizia sociale, oltre che quella dei tribunali. Le mafie hanno sempre approfittato non solo delle fragilità delle persone ma anche delle mancanze del sistema in termini di servizi, contesto sociale, lavoro, opportunità». 

Dopo le stragi, Palermo reagì: vede quella stessa rabbia anche oggi? 

«La rabbia è una reazione che va trasformata in azione, altrimenti resta indignazione passeggera. 

Deve diventare consapevolezza e responsabilità, sentimenti che, in tante realtà della Palermo attuale, hanno il volto concreto dell’impegno». 

Oggi che città si trova di fronte? 

«Una città più consapevole, capace anche di guardare nelle proprie ferite e contraddizioni, dunque capace di evolversi anche attraverso la memoria viva di quella stagione di sangue». 

La pandemia ha in qualche modo modificato l’allarme sociale sulle mafie? 

«Ha rischiato di far abbassare l’attenzione. Tanto più che già da molti anni i clan avevano scelto una strategia di basso profilo, contagiando un tessuto economico già caratterizzato da zone grigie o torbide. Per fortuna in questi quasi due anni c’è chi —come il procuratore capo della Dna, Federico Cafiero De Raho, e altri — ha puntualmente richiamato l’attenzione sul rischio che le mafie traessero dalla pandemia occasione di arricchirsi e potenziarsi, come accaduto in altre emergenze e crisi del passato. Tra queste voci, c’era anche Libera». 

Quanto il potere delle mafie può incidere nella ripartenza? 

«Dipende dalle basi su cui si costruisce. Se si procede sulla base di logiche esclusivamente economiche, si ripropone un modello che ha rappresentato un terreno fertile per mafie e malaffare. La ripartenza presuppone un cambiamento di prospettiva culturale e politica, altrimenti sarà un ritorno a vie che hanno già mostrato di non portare a nulla di buono e costruttivo. Come dice papa Francesco, questo è “un sistema ingiusto alla radice”» . 

Da dove passa oggi il confine della lotta alle mafie? 

«Come sempre, dalle coscienze. 

Solo coscienze sveglie, vive, non addomesticate né anestetizzate, possono contrastare efficacemente le mafie e tutte le forme di complicità, inerzia e indifferenza che le favoriscono». 

Come è cambiata negli anni l’esperienza di Libera? Che differenza c’è rispetto agli esordi? 

«L’esperienza è cambiata come sempre cambia, se quello che fai è a contatto con la vita, se non si limita a essere un sapere teorico e autoreferenziale da cui derivano pratiche schematiche e protocollari. Rispetto agli esordi, esperienza e conoscenza sono ovviamente cresciute, pur nella costante consapevolezza dei nostri limiti e della necessità di migliorare e, se è il caso, correggere il nostro impegno. 

Sventurato è chi, in ogni ambito, si crede “arrivato” e pensa di non avere più nulla da imparare». 

Il don Luigi che l’ha fondata è lo stesso di oggi? 

«Sono cambiato come e con Libera, essendo Libera un “noi”, uno spazio di condivisione e corresponsabilità». 

Libera è stata al fianco della procura di Reggio Calabria nell’avvio del protocollo “Liberi di scegliere”. Quanto è importante quella battaglia? 

«Non solo importante ma cruciale, perché con “Liberi di scegliere” è possibile colpire le mafie dall’interno, facendo leva su quelle coscienze vive, non allineate, che anche esistono nelle organizzazioni mafiose, soprattutto tra le donne. Un buon numero sono state aiutate a uscire dalle cosche, e la loro ritrovata libertà può essere da stimolo per altre e altri. Bisogna dunque incentivare questa via, anche tramite strumenti giuridici adeguati». 

Di recente, uno degli ex ospiti del programma è stato arrestato con l’accusa di essere un boss. Questo inficia la validità del progetto? 

«Assolutamente no: un esito negativo non può essere un pretesto per arrendersi. Deve anzi essere uno stimolo a esaminare con cura la vicenda per migliorare la prassi e impedire che situazioni del genere si ripetano. Tenuto conto che si tratta di vicende delicatissime, nelle quali entrano in gioco anche fattori non del tutto ponderabili». 

Il presidente del tribunale dei minorenni Di Bella sta sperimentando il medesimo protocollo a Catania. A suo parere sarebbe necessario estenderlo all’intera Sicilia? 

«Non solo all’intera Sicilia, ma a tutte le regioni, a cominciare da quelle dove il controllo delle mafie continua a essere territoriale e a volte asfissiante». 

Dopo tanti anni di battaglie antimafia, c’è ancora chi tende a minimizzare il problema. Che effetto fa a chi come voi è da anni in prima linea? 

«È uno stimolo a incentivare l’impegno. Forme di sottovalutazione, ignoranza, indifferenza o malafede sono da mettere in conto quando l’obbiettivo è un cambiamento vero e a più livelli, come quello necessario per contrastare e sconfiggere le mafie». 


La Repubblica Palermo, 21/11/2021

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