sabato, novembre 20, 2021

I PERSONAGGI. Pintacuda, Sorge e la Primavera incompiuta

Da sx: padre Ennio Pintacuda, padre Bartolomeo Sorge





di FABRIZIO LENTINI

La Primavera è l’ultima epopea di Palermo. Come tutte le epopee ha i suoi eroi e le sue battaglie, le storie e le memorie, la narrazione e la leggenda. Talvolta qualcuno la evoca, la rimpiange, la accosta ai modesti tempi odierni. Ma il mito ha le sue ragioni che la cronaca non conosce. E le icone degli eroi restano indelebili come i condottieri nei ritratti: giovani, forti e indomabili.  C’era Leoluca dal ciuffo ribelle, l’Orlando furioso che guidò Palermo fuori dal fumo del tritolo mafioso, incarnando lo spirito di una città che voleva, ma non sapeva, scrollarsi di dosso le sue tare storiche, ribellarsi ai suoi padroni sempre più famelici.

C’erano tanti ragazzi che si prendevano per mano nelle catene umane, tante donne che digiunavano o esponevano lenzuoli bianchi ai balconi, tanti preti che in nome del Vangelo e del Concilio incitavano il loro gregge a uscire dagli steccati, a cercare una resurrezione in terra, a costruire la “ città dell’uomo” disegnata da Lazzati. 

Due di quei preti, gemelli diversissimi, Bartolomeo Sorge ed Ennio Pintacuda, stanno a buon diritto nel pantheon degli eroi della Primavera. E alle loro divergenze parallele, che hanno percorso e innervato la Palermo febbrile e ribollente degli anni Ottanta- Novanta, il giornalista Nuccio Vara e Pino Toro, pioniere del movimento Città per l’uomo, hanno dedicato un libro dal titolo apparentemente neutro: “ Pintacuda e Sorge. Il cammino personale comune, il confronto” (edizioni San Paolo, 224 pagine, 18 euro: lo presenteranno giovedì prossimo alle 16, all’istituto Gonzaga, i direttori de L’Espresso, Marco Damilano, e di Civiltà cattolica, Antonio Spadaro). Le vite parallele che Toro e Vara raccontano, però, non sono un distillato di acribia storiografica. Al contrario, sono impastate con la farina di chi cerca i frutti del loro impegno nella Palermo di oggi, e non li trova, e però non si rassegna al peggio. 

Accadevano cose straordinarie, in quei formidabili anni Ottanta palermitani. Accadeva che un gesuita come Pintacuda, nato a Prizzi, laurea in Legge a Milano e master in Sociologia politica a New York, radunasse attorno a sé, al Centro studi sociali di via Lehar, gruppi di giovani che cercavano in quel prete con il clergyman e gli occhiali spessi, che fumava Dunhill e offriva amaro Averna, qualche grimaldello per scardinare i meccanismi del potere che in quegli anni parevano blindati, in Italia e ancora di più in Sicilia, mentre la Cosa nostra corleonese soppiantava a colpi di bombe e mitragliette quella palermitana adusa alle pacifiche e redditizie complicità con la “borghesia mafiosa”. E accadeva che alla guida dell’arcidiocesi ex regno del cardinale Ruffini, gran regista della conservazione e alfiere del negazionismo di fronte ai primi vagiti di antimafia, ci fosse un vescovo come Salvatore Pappalardo, figlio del Concilio e capace di leggere in filigrana un mondo in movimento, ideatore di quella “ Missione Palermo” che squarciò il velo sulla città delle migliaia di diseredati in condizioni di vita da Terzo mondo. 

Dalla mente di “padre Ennio” e dei suoi giovani (uno, il più promettente, era un professore di Diritto pubblico di nome Leoluca Orlando) nasce l’utopia del decentramento. Il progetto cioè di una città in cui ogni quartiere avesse un parlamentino e un esecutivo cui il Comune delegasse poteri e risorse. Un eccezionale strumento di autogoverno e di partecipazione politica, sul quale però i partiti avevano già steso la loro coltre clientelare, per destinarlo a portaborsee portavoti. Il connubio tra Pintacuda e Pappalardo genera la prima eresia politica palermitana: quel movimento Città per l’uomo destinato per un decennio a essere spina nel fianco dell’allora intoccabile Balena bianca democristiana. Mentre il laboratorio dell’alchimista Pintacuda è in piena attività, l’altro gesuita da prima pagina, Bartolomeo Sorge, dirige Civiltà cattolica, la rivista dei gesuiti autorizzata da Paolo VI a esplorare nuove vie, a dialogare con mondi estranei, a portare le linee del Concilio a conseguenze cui il Papa e i vescovi non potevano arrivare. 

Sono due eretici autorizzati, a quel tempo, Sorge e Pintacuda. Per poco ancora. Perché Pappalardo teme l’identificazione tra un movimento politico e la Chiesa, e prende sempre più le distanze dal gesuita-politologo. E perché la restaurazione wojtyliana impone l’ortodossia a Civiltà cattolica e catapulta Sorge a Palermo, terra di missione inquanto crocevia del nuovo che avanza. 

Il 22 ottobre 1985 Sorge sbarca dalla motonave per andare a dirigere il Centro studi sociali (poi ribattezzato Istituto Pedro Arrupe), quartier generale di Pintacuda. Leoluca Orlando è appena diventato sindaco di Palermo, auspice il neo- commissario della Democrazia cristiana Sergio Mattarella, che ha fatto pulizia nelle liste cacciando gli uomini di Ciancimino, ricucendo con il mondo cattolico e arginando Città per l’uomo. Ma Orlando guida un pentapartito classico, come quelli che piacciono a Roma, e non fa ancora paura ai big. 

Sorge non è Pintacuda. Non è unkingmaker, non sponsorizza liste e movimenti. Crede però, come il confratello, nella formazione dei giovani alla buona politica, alla nuova politica. I corsi dell’Arrupe hanno quell’obiettivo: fornire ai partiti, e anzitutto alla Dc, una classe dirigente competente, pulita, rinnovata, motivata. L’Orlando del 1985-90 corrisponde esattamente a questo identikit. E perciò Sorge e Pintacuda, benché personalità forti e non malleabili, collaborano in armonia, benedicendo con Mattarella lo strappo del 1987- 88, quando il sindaco rompe con i socialisti e lancia le sue giunte anomale cui approda anche il Partito comunista. 

Palermo ha su di sé gli occhi del mondo. La capitale della mafia prova a trasformarsi in capitale dell’antimafia, il suo giovane sindaco va in giro, sotto scorta, a raccontare la metamorfosi come profezia autoavverantesi. Ma nel 1990 i ras della Prima Repubblica al tramonto riprendono in mano il pallino e pongono il veto a un nuovo mandato da sindaco per Orlando. Che sbatte la porta della Democrazia cristiana e fonda la Rete, altra creatura concepita con Pintacuda. Ed è qui che le strade dei due gesuiti si separano, traumaticamente: Sorge crede nelle possibilità di autoriforma del sistema, Pintacuda teorizza la rottura. Sono gli anni, lividi e incandescenti, di Tangentopoli, della fine dei partiti nati nel Dopoguerra, dell’avvento del bipolarismo e dell’ascesa di Berlusconi. 

La fine è nota: Pintacuda, cacciato da Sorge dall’Istituto Arrupe nel settembre del terribile 1992, si fa ideologo della Rete ma poco dopo rompe anche con Orlando, per ragioni che neanche questo libro chiarisce, dando eco alla voce secondo la quale il gesuita chiedesse un ruolo nella macchina comunale che l’ex allievo rieletto sindaco a furor di popolo non era disposto a concedergli. Ma è un’ipotesi che non basta a spiegare un big bang innescato da incomprensioni, diffidenze, gelosie, risentimenti covati nel connubio fra due ego ugualmente voluminosi, o forse dalla psicoanalitica “uccisione del padre” da parte del giovane diventato adulto. L’ultima stagione di Pintacuda, salito a bordo del taxi del centrodestra che lo porta sulla poltrona di presidente dell’ente regionale Cerisdi, vede il gesuita di Prizzi disegnare dal Castello Utveggio futuribili scenari euromediterranei, come sempre al confine fra utopia e potere. Fino alla repentina morte, nel 2005, nel grande freddo dei suoi vecchi compagni di strada che non gli avevano perdonato di aver saltato il fosso in un’Italia in cui il bipolarismo si era trasfigurato in guerra di religione. 

Un vincitore sconfitto, come a suo modo anche Sorge, che sino alla fine dei suoi giorni sarà voce nel deserto di una politica sempre più lontana dai valori cristiani, e spesso dai valoritout court. 

Sullo sfondo, una città e un sindaco che, nella severa disamina di Toro e Vara, hanno archiviato, insieme con i furori, anche la speranza della redenzione. E che guardano alla Primavera coniugando i verbi al passato remoto, raccontando e fantasticando, ricordando e commuovendosi, come si addice a ogni epopea gloriosa, lasciata in eredità alla storia e ai suoi narratori. 

La Repubblica Palermo, 20/11/2021

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