In occasione del 106mo anniversario dell’assassinio di Bernardino Verro, riproponiamo, su gentile concessione dell'autore e della rivista "Incontri", un interessante saggio dedicato allo stesso, pubblicato nel 2015, in occasione del 100mo anniversario.
Vi viene delineata la prestigiosa figura di politico e di sindacalista di Verro, la sua attività intelligente e concreta per affrancare i contadini dalle schiavitù feudali cui erano sottoposti. Mangiameli affronta con schiettezza anche il tema della brevissima affiliazione di Verro alla mafia. Ne spiega le ragioni, ne sottolinea l’errore, ma da atto della onestà intellettuale e politica di Verro, che la mafia combatterà sempre, per tutta la vita, fino alla morte. (dp)
BERNARDINO VERRO, UN DELITTO IMPUNITO
di ROSARIO MANGIAMELI*
In quell’autunno del 1915 il sindaco socialista di Corleone veniva fermato per sempre nella sua opera di riscatto dei contadini poveri. Cento anni fa Bernardino Verro cadeva a Corleone sotto il piombo della mafia. Era il 3 novembre 1915 e la notizia dell’assassinio del primo sindaco socialista della città non destò neanche tanto scalpore: l’attenzione della stampa era per lo più rivolta alle vicende della guerra a cui da pochi mesi anche l’Italia stava partecipando; per di più Verro era un neutralista sul quale cadeva lo stigma della pubblica opinione galvanizzata da sentimenti bellicisti. E d’altronde, a parte l’omicidio eccellente del cavaliere Notarbartolo e tutta la vicenda processuale che l’aveva accompagnato una quindicina d’anni prima, i fatti e gli omicidi di mafia non destavano molto scalpore e non ne avrebbero destato ancora per molti anni. Specialmente a Corleone. Così fu pure per Placido Rizzotto assassinato dalla medesima organizzazione mafiosa nel marzo del 1948 e solo ora onorato con pubbliche cerimonie. Verro invece attende ancora un riscatto. Per ben due volte i suoi amici e compagni di Corleone tentarono di dedicargli monumenti commemorativi, distrutti da mani non tanto ignote.
Un filo di continuità lega Verro a Rizzotto: l’uno iniziatore di quella tradizione socialista che l’altro continuava nel secondo dopoguerra; entrambi a capo di un importante movimento contadino e fatalmente venuti in conflitto con la più aggressiva sezione della mafia siciliana. Bernardino Verro era nato a Corleone il 3 luglio 1866 da una modesta famiglia, allevato dai nonni dopo la morte prematura di entrambi i genitori, aveva interrotto gli studi per un impiego al municipio. La prospettiva di una tranquilla carriera era stata ben presto interrotta dal manifestarsi nella società locale degli effetti della crisi agraria degli anni 1880 - ’90. Proprio per dare risposta a quel profondo disagio Verro divenne uno degli organizzatori più attivi del movimento dei Fasci che allora sorgeva in tutta la Sicilia, e fu il fondatore e il principale animatore del Fascio di Corleone e di molte altre simili organizzazioni dei dintorni. Aveva aderito al Partito socialista, nato nel 1892, e si trovò subito in sintonia con altri giovani socialisti (Barbato, De Felice, Bosco); con loro tentò di caratterizzare politicamente i Fasci, attraverso la costituzione di un comitato centrale regionale. Fu anche cooperatore, animatore di lotte sindacali, ideatore di soluzioni originali come i Patti di Corleone. Dopo lo scioglimento manu militari dei Fasci (gennaio 1894) fu processato al pari degli altri dirigenti e condannato a 12 anni di carcere. Ne scontò solo due, grazie a una amnistia. Riprese il suo impegno politico e sociale in Italia e all’estero. Nel primo decennio del secolo ventesimo riuscì a ricostruire l’organizzazione contadina corleonese, nel 1914 la lista socialista da lui capeggiata ottenne la maggioranza e fu eletto sindaco. Sulla sua strada incontrò fatalmente la mafia, già potente nell’ambito corleonese, con la quale ebbe un drammatico confronto che gli costò la vita.
I FASCI SICILIANI
In seguito a una crisi di dimensioni planetarie il crollo del prezzo del grano travolse gli equilibri consolidati in una economia fondamentalmente cerealicola e latifondista (l’altopiano granifero di Corleone che riforniva Palermo), scaricando ben presto i disagi sulla parte contrattualmente più debole della popolazione rurale. I latifondisti infatti ebbero buon gioco nell’inasprire le condizioni di affitto e subaffitto dei coltivatori e limitare così le perdite. Un mondo già misero vide accrescere la miseria; la fame divenne compagna abituale dei lavoratori. L’aggravarsi della crisi, la sua violenta aggressione ai livelli di vita stava coinvolgendo tutti i membri delle famiglie dei lavoratori agricoli, degli artigiani, degli operai, nelle città e nei paesi siciliani. In conseguenza di ciò si notava ovunque una forte mobilitazione delle donne al pari degli uomini che, a partire dal 1892, rese totalizzante la partecipazione alle associazioni chiamate Fasci. I motivi del repentino successo dei Fasci in Sicilia non vanno cercati nella sola spinta dell’impoverimento, o proletarizzazione, ma nella coincidenza della crisi con una fase di mobilitazione politica dei ceti medi dovuta al progressivo allargamento del suffragio elettorale politico (1882) e amministrativo (1888) voluto dalla Sinistra storica. Ora elettori potevano essere coloro i quali compiuti i 21 anni (prima era 25), pagavano cinque lire di tasse e avevano frequentato la scuola fino alla seconda elementare. Il diritto di voto si legava quindi con l’istruzione. Nell’Italia semi analfabeta di allora era ancora un piccolo progresso, e in particolare al Sud con percentuali di illetterati vicine al 70 per cento; ma si apriva così una prospettiva che dava fiato ai partiti municipali, ovvero a quelle aggregazioni fazionarie che ora potevano cercare di convogliare un nuovo elettorato nella lotta per la conquista del potere locale. In occasione delle elezioni amministrative dell’estate 1893 fatalmente gli equilibri si spostarono a sinistra: per ottenere il consenso dei nuovi possibili elettori era necessario stare sul loro terreno, rispondere alle loro esigenze, tanto più nei luoghi in cui la mobilitazione di masse impoverite premeva con forza.
I FRATUZZI
A Corleone, come in altri centri dell’interno della Sicilia, lo scontro si fece subito duro e seguì il doppio schema di contrapposizione classista e di lotta tra gruppi municipali differenti. Non era escluso il ricorso alla violenza. Avrebbe avuto possibilità di successo il gruppo che prima avrebbe stipulato l’alleanza con il numerosissimo (circa quattromila uomini e donne) Fascio locale. A offrire solidarietà e appoggio a Verro nella lotta contro i latifondisti si fece avanti una società segreta, i Fratuzzi, un nome rassicurante dietro il quale si celava una cosca mafiosa composta da gabelloti. Era la crisi che spingeva i gabelloti a cercare l’alleanza con i contadini: potevano avere un comune interesse a contenere la tendenza dei latifondisti a scaricare sulla filiera degli affittuari (appunto dal gabelloto, al colono, al mezzadro, al bracciante) le perdite provocate dalla caduta del prezzo del grano. Ma meglio ancora i Fratuzzi intendevano attrezzarsi per la conquista del municipio. A Verro fu chiesto di associarsi alla cosca in cambio di protezione, cosa che fece. Avrebbe lasciato una preziosa testimonianza scritta del rito di iniziazione. Fu condotto in un casolare appartato, introdotto in una stanza dove si trovavano altri uomini seduti attorno a un tavolo e armati di doppiette. Sul tavolo stava un foglio con su disegnato un teschio. Per motivare la richiesta di affiliazione Verro parlò del suo impegno a favore dei contadini, ebbe l’approvazione del gruppo; ma questo per i mafiosi era un dettaglio trascurabile, a loro interessava l’alleanza con il Fascio, e poi avrebbero saputo come gestirla. Si procedette dunque alla puntura con uno spillo e al versamento di alcune gocce di sangue del neofita sul foglio, che venne bruciato mentre Verro pronunciava il suo giuramento di fedeltà. Significava che nessun affiliato poteva uscire vivo dalla “fratellanza”.
PER UNA POLITICA SOCIALISTA
I mafiosi tentarono subito di volgere l’attività del Fascio a proprio vantaggio. Ma vi si oppose Verro che si accorse ben presto dell’errore che aveva commesso; ne avrebbe fatto ammenda per tutta la vita e lo avrebbe pagato con la vita stessa. Abbandonò l’organizzazione mafiosa e riuscì a mantenere unito il Fascio attorno a sé. Dovette però astenersi dal partecipare alle elezioni, diversamente dalla maggior parte degli altri Fasci che ottennero successi talvolta considerevoli. Si poneva poi il problema di darsi una vera strategia politica e sindacale evitando l’isolamento. Era quello della revisione dei patti agrari, e non quello salariale, il terreno di lotta più importante per i soci dei Fasci, assente quasi del tutto era infatti il bracciantato, o poco significativo, mentre erano importanti le diverse figure che andavano dall’affittuario agiato, che vedeva assottigliarsi il suo reddito, al colono, al terraggere, al mezzadro, ecc. Una politica che non avesse tenuto conto di simili differenze sarebbe stata votata al fallimento dopo la prima fiammata di collera. Alla fine della tornata elettorale, il 31 luglio, si riunì a Corleone un congresso provinciale dei Fasci. In quella occasione Verro propose i cosiddetti Patti di Corleone. Vi si chiedeva l’adozione della mezzadria classica, nel tentativo di rendere certi i rapporti tra concedenti e agricoltori. Verro così riprendeva una proposta che era stata avanzata da un esponente della destra illuminata, come Sonnino, il che gli avrebbe procurato non poche critiche da sinistra; tuttavia le rivendicazioni avanzate a Corleone divennero la base di lotta per uno sciopero di vastissime dimensioni. La reazione governativa non si fece attendere e si inasprirono gli attacchi (conflitti a fuoco, arresti) nei confronti degli scioperanti. Il culmine però fu raggiunto quando Francesco Crispi si sostituì a Giovanni Giolitti alla guida del governo. Il 4 gennaio del 1894 Crispi proclamò lo stato d’assedio e la truppa procedette allo scioglimento dei Fasci e all’arresto dei suoi capi con l’accusa di cospirazione contro lo stato. Ne seguì un clamoroso processo, imbastito con false prove, che si concluse con la condanna dei capi dei Fasci. Contestualmente allo stato d’assedio Crispi aveva presentato all’approvazione del Parlamento una legge agraria per la Sicilia con la quale si proponeva di attuare una sostanziale e coraggiosa riforma a favore dei contadini. Tuttavia con la repressione si era privato del sostegno delle organizzazioni e dei gruppi sociali interessati alla riforma. Ben presto la spinta riformatrice si sarebbe arenata; il governo Crispi sarebbe caduto dopo la sconfitta di Adua (1896).
ALLA RICERCA DI UN PROLETARIATO
Il problema della organizzazione di un soggetto sociale che potesse promuovere il cambiamento in Sicilia si ripropose in un modo drammatico negli anni tra la fine del secolo XIX e l’inizio del nuovo secolo. Dopo la repressione e il carcere la costruzione di una formazione sociale che potesse svolgere un ruolo simile a quello del moderno proletariato continuava ad essere l’obiettivo della pattuglia socialista, coerentemente con la sua formazione culturale. L’associazionismo, l’impegno per l’istruzione, furono strade tentate con alterne vicende. Le leghe e le cooperative divennero allora i luoghi nei quali pazientemente creare le condizioni favorevoli alla lotta, l’istruzione divenne una delle armi più importanti per l’accesso alla cittadinanza. Ma i socialisti dovettero fare i conti con l’emigrazione che svuotava i paesi e rendeva difficile qualsiasi forma di aggregazione politica e sociale. Perseguitati dalle leggi antipopolari, sottoposte le loro organizzazioni a continui provvedimenti di scioglimento, militanti come Verro, Nicola Barbato e Lorenzo Panepinto (un maestro socialista e cooperatore di Santo Stefano di Quisquina) decisero di seguire i loro compaesani oltre oceano per continuare lì l’azione politica che ritenevano ormai difficile in patria. Il mito di un proletariato sganciato dalla appartenenze nazionali sembrava poter dare delle indicazioni strategiche in un’epoca di forte globalizzazione come erano gli anni di inizio secolo XX. Gli Stati Uniti d’America sembravano il paese internazionale per eccellenza nel quale il proletariato proveniente da ogni parte d’Europa avrebbe potuto consolidare una propria autonoma fisionomia di classe. In realtà furono il forte retaggio culturale e sub culturale di ogni gruppo, improntato non solo al nazionalismo, ma ancor più a forme di localismo, a vanificare questo sogno. L’organizzazione mafiosa riusciva invece con maggior successo a impiantarsi tra le comunità degli emigranti, speculando sul localismo (le origini paesane) che diventava una forma di protezione davanti alle incognite del nuovo mondo e favoriva la formazione di un boss system che gestiva la manodopera. Scriveva Panepinto dopo una permanenza in Florida presso la comunità quisquinese: «Nutrivamo delle illusioni sui nostri lavoratori di Tampa ma purtroppo neppure il lontano ambiente sembra scalfire la loro vecchia anima di incoscienti e di criminali. A nulla valgono i dollari e gli alti salari se poi nessuno forma la coscienza politica e morale di questi proletari». Di ritorno dall’esperienza americana nel 1901 Verro avrebbe fondato un giornaletto scritto in dialetto, “Lu viddanu”, forse impressionato della tenace persistenza del dato sub culturale tra gli emigrati; da quello sembrava necessario partire per meglio svolgere l’azione pedagogica che riteneva dovesse affiancare l’azione politica e sociale.
COOPERATIVE E AFFITTANZE COLLETTIVE
Tra il 1901 e il 1902 la conflittualità nelle campagne siciliane ritornò ad essere molto alta. In occasione di un grande sciopero agrario del 1901 Verro rilanciò i Patti di Corleone e riuscì a dare vita a una affittanza collettiva. Si trattava di una nuova forma associativa, che si sperimentava in età giolittiana: la lega si sostituiva al gabelloto nella stipula dell’affitto con il latifondista eliminando così l’intermediazione. Il vantaggio era reciproco dal momento che il risparmio sulla intermediazione consentiva di pagare fitti più alti. Ma neanche quelli furono anni facili, tra fughe precipitose e caparbia volontà di lotta: il profilarsi di una nuova condanna costrinse Verro a riparate in Tunisia e a Marsiglia nel 1903; nel 1906 di nuovo a Corleone fondò l’Unione Agricola cooperativa, che prese in affitto 3.500 ettari di terra strappandoli ancora una volta ai gabelloti. Nel 1906 una legge promulgata da Sonnino (29 marzo) istituì la Sezione speciale di credito agrario presso il Banco di Sicilia. Significava che le cooperative (solo quelle laiche, però) potevano avere accesso diretto al credito come enti intermediari del Banco. Il successo della legge è documentato dalla crescita notevole delle organizzazioni cooperative che passarono da 42 nel 1907 a 323 nel 1913 mentre le erogazioni nel 1913 raggiunsero il picco di 15.500 lire.
Verro e Panepinto compresero il valore di questa legge e si batterono al congresso di Palazzo Adriano del 1909 per superare ogni remora e cogliere questa nuova opportunità. Ma la strada si rivelò irta di difficoltà: i gruppi mafiosi e affaristici si lanciarono all’assalto delle associazioni dei lavoratori agricoli mettendone in pericolo l’autonomia, mentre nel Partito socialista si apriva uno scontro che avrebbe portato alla scissione del 1912 tra massimalisti e riformisti. Verro si trovava al centro di questa vicenda, sia come dirigente locale, sia come dirigente nazionale del Partito e proprio mentre era assente da Corleone, inviato dal Partito a Reggio Calabria e a Messina per gestire l’attività di soccorso post terremoto (1908) si ordì una colossale truffa ai danni delle cooperative corleonesi con la falsificazione di cambiali. Ma non è tutto: il 6 novembre 1910 due fucilate mancarono per poco Verro mentre si trovava davanti alla farmacia del paese. Il 16 maggio 1911 è la volta di Panepinto, ucciso mentre era impegnato nella fase costituente della cassa agraria di Santo Stefano. «La mafia ha fatto scempio della prefettura e della magistratura - scrive a Colajanni nel maggio 1911 - e io ho dovuto lasciare Corleone non potendo più resistere a questa vita pericolosissima». Al deputato radicale chiedeva un intervento in Parlamento. La lunga vicenda giudiziaria per le cambiali false intanto arrivava a una svolta drammatica con l’arresto di Verro mentre partecipava al congresso del Partito a Roma (1912).
UNA NUOVA MAFIA “DEMOCRATICA”
Si delineava chiaramente il profilo di quello che qualche anno dopo Gramsci avrebbe chiamato “il mostruoso blocco agrario”. Una capacità della mafia e degli agrari di adeguarsi alla nuova situazione politica e sociale penetrando nel mondo delle cooperative e delle organizzazioni di contadini grazie talvolta anche alle organizzazioni cattoliche. Queste erano volutamente escluse dalle opportunità previste dalla legge Sonnino del 1906. Le aperture alle classi sublaterne di Sonnino e di molti altri esponenti dell’Italia liberale erano infatti motivate dal progetto di sottrarle alla influenza del clero. A Corleone era l’organizzazione “San Leoluca” che unificava il gruppo cattolico popolare con i gabelloti: si riproduceva così in maggior misura e con effetti più duraturi la strategia inquinante già adottata dalla mafia corleonese al tempo dei Fasci, quando i Fratuzzi avevano tentato di circuire Verro. L’esempio più noto è quello della vicina Villalba, dove il giovane Calogero Vizzini, già affiliato alla banda Varsallona mise a disposizione dell’associazionismo cattolico le sue attitudini violente e strappò di mano l’affitto dell’ex feudo Belici ai vecchi gabelloti mafiosi. La terra venne così distribuita ai contadini villalbesi della cooperativa diretta dall’arciprete Sgarlata, uno degli zii di Vizzini; ma al valente protettore andò una quota speciale di ben 250 ettari di terreno, commisurata ai suoi meriti. Questa nuova mafia collocava a un livello diverso la propria capacità di intermediazione, sapeva di dover fare affidamento sul consenso popolare e riusciva a strumentalizzare una ideologia democratica come il popolarismo cattolico adeguata ai tempi nuovi del suffragio universale maschile. La novità non sfuggì alla acuta osservazione di Verro che in un memoriale spedito a Colajanni (27 maggio 1912) mise in evidenza il protagonismo politico di questa “nuova” manifestazione mafiosa impegnata direttamente con i suoi uomini a dirigere le amministrazioni comunali del circondario di Corleone. All’analisi seguivano i nomi. Colajanni non avrebbe reso pubblico il memoriale, mentre sotto i colpi ben diretti della criminalità politico - mafiosa il movimento cooperativo andava disarticolandosi. Non meno dannose erano le tensioni interne al movimento socialista. Lo scontro avveniva dunque apertamente sul terreno politico e le elezioni amministrative del 1914 divennero l’occasione della resa dei conti. Nonostante le difficoltà a Corleone il fronte socialista rimaneva unito e Verro riusciva a barcamenarsi tra le opposte fazioni del Partito; nel luglio la lista socialista ottenne un chiaro trionfo conquistando la maggioranza nel consiglio comunale. La sindacatura toccò a Verro, che non si illuse sulla reale situazione. A commento della vittoria scrisse a un amico socialista un drammatico messaggio: «Sto facendo il sindaco, o bere o affogare. [...]. Cosa sarebbe avvenuto di questo movimento socialista se i lavoratori dopo avere ottenuto la vittoria vi avessero rinunciato?». Si mette dunque al lavoro: illuminazione pubblica, acquedotto, lavori pubblici, e immancabilmente scuole serali. Progetta anche l’istituzione di una cattedra ambulante di agricoltura, uno strumento importante all’epoca, che serviva a diffondere meglio tra i contadini le tecniche agricole moderne. Il 3 novembre del 1915 l’attentato. È un pomeriggio piovoso e il sindaco è giunto sotto casa, quando si rende conto dell’agguato ha già salutato il compagno che di solito lo scorta. Ha il tempo di estrarre il revolver e di sparare un colpo, ma a nulla serve davanti alla pioggia di fuoco che lo investe. Non è finita, il cadavere viene ancora oltraggiato e deturpato con numerose fucilate. Il messaggio deve essere chiaro. Nel memoriale consegnato a Colajanni e in un altro ritrovato dopo l’assassinio, Verro aveva delineato in modo molto particolareggiato la rete mafiosa che da Corleone si estendeva fino a Palermo (nel secondo scritto parlava pure dell’iniziazione avvenuta nel 1893), ma le indagini non fecero per questo progressi significativi. Il delitto era destinato a restare impunito, la memoria oltraggiata, come quei due monumenti che i compagni avevano tentato di dedicargli.
* (Professore ordinario di Storia contemporanea – Università di Catania)
INCONTRI – ANNO IV N. 13 OTT/DIC 2015
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
relativa all’articolo di Rosario Mangiameli, Bernardino Verro: un delitto impunito, «Incontri. La Sicilia e l’altrove», n.s., anno IV, n. 13, ott-dic 2015.
Opere specifiche su Verro:
ANSELMO NONUCCIO, La terra promessa: vita e morte di Bernardino Verro e del movimento contadino nel feudo, Palermo, 1989.
MANGANO SALVATORE, Bernardino Verro socialista corleonese, Palermo, 1974.
Sulla storia generale di Corleone:
ANSELMO NONUCCIO, Corleone Novecento, 3 voll., Palermo, 1998.
PATERNOSTRO DINO, L’antimafia sconosciuta. Corleone 1893 – 1993, Palermo, 1994.
Classiche storie sui Fasci siciliani:
ROMANO SALVATORE F., Storia dei Fasci siciliani, Bari, 1959.
GANCI SALVATORE M., I Fasci dei lavoratori, Caltanissetta – Roma, 1977.
RENDA FRANCESCO, I Fasci siciliani. 1892 1893, Torino, 1977.
Per una analisi di questa produzione datata:
MANGIAMELI ROSARIO, Memoria e tradizione. I Fasci siciliani negli anni cinquanta, in AA. VV. Elites e potere in Sicilia dal medio evo a oggi, a cura di F. Benigno e C. Torrisi, Roma, 1995.
Sulla Sicilia tra fine Ottocento e inizio Novecento
BARONE GIUSEPPE, Egemonie urbane e potere locale (1882 – 1913), in «La Sicilia», a cura di M. Aymard, G. Giarrizzo, Torino, 1987.
Sulla mafia in generale:
LUPO SALVATORE, Storia della mafia, Roma, edizioni diverse.
Sul rapporto tra mafia e movimento cooperativo: MANGIAMELI ROSARIO, Gabelloti e notabili nella Sicilia dell’interno, in Id., “La mafia tra stereotipo e storia”, Caltanissetta - Roma, 2000.
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