di Marcello Benfante
La Resistenza, la cattura e la strage: Antonio Ortoleva ricostruisce la figura di "Jacon" che nel ’ 45 preferì morire con i suoi compagni
Il tema della memoria (della "lotta per la memoria", come diceva Lotman) diventa sempre più centrale e fondamentale, ma al tempo stesso periferico e negletto, non solo nel dibattito storico-politico, ma anche in quello narrativo e letterario o artistico in senso lato. Ricordare significa, in ogni ambito espressivo, riacquisire consapevolezza di sé e allo stesso tempo del noi, dei rapporti con l’altro, con il sociale.
Da questo coagulo di istanze etiche e culturali muove la ricostruzione documentaria e narrativa condotta da Antonio Ortoleva nel suo testo composito e in vario modo polifonico intitolato "Non posso salvarmi da solo" (Navarra editore, pagine 138, euro 12).
Giornalista a lungo attivo anche a Palermo, Antonio Ortoleva ricuce con passione e pietas, politica e insieme familiare, la vicenda drammatica di Giovanni Ortoleva, il partigiano Jacon, «ragazzo siciliano di montagna», nato a Isnello nel 1921, confluito nella Resistenza dopo l’8 settembre e morto trucidato dai fascisti a Salussola, in Piemonte, il 9 marzo del 1945.
Nella strage efferata e scellerata dei militi fascisti perirono, dopo orrende torture, venti partigiani, sorpresi e catturati nel sonno, esausti, al ritorno di una missione. Fra questi Jacon/Giovanni, cui tuttavia era stata promessa la salvezza da un comandante conterraneo. Ma la tentazione di accettare la vita da chi si accingeva a massacrare i combattenti per la libertà non sfiora neppure Jacon, convinto fino all’ultimo respiro che non ci si può salvare da soli, che non è giusto né possibile quando la posta in gioco è la libertà, la democrazia, la solidarietà con la gente che ci accoglie, la fratellanza profonda e senza confini.
Jacon, quindi, va a morire per sua scelta, per non tradire il vincolo sacro con i suoi compagni.
A raccontare questa tragedia che sembra una pagina di letteratura eroica è l’unico sopravvissuto, Sergio Canuto Rosa. Che pare sopravvissuto, come l’Ismaele melvilliano di "Moby Dick", proprio per poter raccontare l’eccidio dei suoi compagni e ripeterlo incessantemente fino alla sua morte naturale, ormai ultra novantenne.
Poiché ogni memoria tende fatalmente a dileguarsi, Antonio Ortoleva si assume allora il compito della testimonianza. E lo fa da giornalista, basandosi su «documenti comprovati», ma anche da scrittore, in un senso più largo, riservandosi una «piccola parte» che è frutto d’immaginazione. Cioè ancora una volta la dialettica manzoniana tra storia e invenzione, ma qui condotta con un «tentativo, chissà se riuscito, di narrazione dal basso».
E dal basso significa collettivamente, in modo corale, con un policentrismo di oggetti e soggetti della narrazione.
Così come è impossibile salvarsi da solo, è altrettanto impossibile essere l’unico cuore della narrazione. Il racconto allora si frantuma in una moltitudine di narrazioni, diventa epopea collettiva.
E nel frantumarsi, come implodendo o esplodendo, si fa appassionata orazione, vibra, freme, d’indignazione, dolore, cordoglio, assurge a canto popolare, «in sintesi e in parte figurato», che trascorre velocemente tra molti temi interconnessi (l’emigrazione, la lotta di classe, la mafia, la Resistenza e il contributo ad essa del Meridione, il separatismo e la figura controversa di Antonio Canepa, la questione operaia e femminile fino a lambire l’eresia di fra Dolcino).
Un excursus storico galoppante e dolente in cui si aggrovigliano inestricabilmente tutte le anomalie e aberrazioni dell’Italia postbellica: la Resistenza tradita, il Sud abbandonato, la strategia della tensione, lo stragismo, il ruolo inquinante di Cosa nostra.
Ogni frammento alla fine si ricompone, logicamente e sentimentalmente, nella riconduzione delle ceneri del partigiano Jacon, in una bara in miniatura, nella sua Isnello, assisa in una sella delle Madonie come un presepe.
La Repubblica Palermo, 8/10/2021
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