I protagonisti della presentazione del libro (Ph. M. Midulla) |
ANNA BUSCEMI*
È un romanzo breve quello presentato sabato scorso a Corleone, che con uno stile asciutto e sobrio ci presenta scene della vita e della realtà del nostro territorio agli inizi del Novecento. La struttura è quella del diario, un genere letterario tanto caro all’autore, che ha curato il manoscritto autobiografico di Tommaso Bordonaro, intitolato “La spartenza” che nel 1990, al concorso annuale di Pieve Santo Stefano, è stato giudicato la migliore autobiografia inedita.
Ed è con gli strumenti propri dello storico che Santo Lombino ha affrontato la scrittura di questo romanzo che ha le caratteristiche di un giallo storico: la vicenda, che avviene nel 1920-21, verte intorno all’assassinio di don Innocenzo Misseri (padre Nuccenzio) arciprete di Torrebruna, nome immaginario per indicare Bolognetta.
Se l’autore ricorre a tale espediente letterario, i riferimenti alle persone, ai luoghi e alle vicende storiche sono, invece, reali e potremmo anzi dire che “Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente VOLUTO”.
La vicenda interessa una piccola comunità dell’entroterra palermitano, Bolognetta, il paese dell’autore, ma la microstoria si inserisce nel più ampio contesto della storia (la macrostoria) propria del primo dopoguerra italiano, caratterizzato dalla migrazione, dall’esperienza della grande guerra, dalla pandemia della spagnola, dalle trasformazioni economiche e sociali, dalle rivendicazioni sociali, dalla prepotenza e prevaricazione dell’organizzazione mafiosa. Tutti fenomeni storici complessi che interessano l’arco temporale in cui si colloca la vicenda (gli anni 1920-1921), periodo caratterizzato da un mondo conservatore e immobile, proprio del sistema latifondista, ma anche da fermenti sociali, legati alle trasformazioni economiche, sociali e industriali che stanno interessando anche questo lembo di Sicilia, percorso dalla locomotiva lungo “la linea ferroviaria a scartamento ridotto che da Palermo S. Erasmo arriva fino a San Carlo, dopo Corleone, settanta chilometri in tutto”. In questo contesto storico che si colloca l’assassinio di padre Nuccenzio, nome immaginario per indicare un sacerdote della nostra diocesi, don Gaetano Millunzi, canonico del Duomo di Monreale, un grande erudito e un prete integerrimo, che venne ucciso a colpi di lupara il 13 settembre 1920, sulla cui tragica fine non si è fatta mai chiarezza.
Ed è alle figure storiche di tanti “preti sociali”, impegnati nella moralizzazione della vita politica controllata dalla mafia che considerava il territorio come “cosa propria”, che il nostro autore, esperto conoscitore della storia della Sicilia, si sta riferendo.
Sotto la spinta dell’enciclica Rerum Novarum (1891) di papa Leone XIII, che aveva invitato il mondo cattolico ad andar “fuori dalla sacrestia” per un più incisivo impegno a favore della povera gente, sottomessa alle ingiustizie e ai soprusi da parte dei “padroni”, prepotenti e arroganti, molti sacerdoti in Sicilia si stavano impegnando concretamente per venire incontro alle difficoltà economiche delle fasce sociali più deboli e per rispondere alle richiede di giustizia sociale e al rispetto dei diritti della persona umana. Non sempre, e non tutti, però, coglievano nel loro impegno e nel loro servizio la fedeltà al Vangelo, anzi, spesso, tali “sacerdoti di strada” (oggi li chiameremmo così), erano oggetto di disapprovazioni, critiche, calunnie da parte di tanti.
In Sicilia negli anni Venti, diversi “preti sociali” furono assassinati dalla mafia. Nel romanzo, viene ricordato un “lungo elenco di altri preti uccisi negli ultimi anni in vari paesi della Sicilia”, come padre Giorgio Gennaro, ucciso nel 1916 a Ciaculli per aver accusato pubblicamente la famiglia Greco di intromettersi nell’amministrazione delle rendite ecclesiastiche; nel 1919 fu assassinato don Costantino Stella, arciprete di Resuttano, “colpevole” di aver aiutato i poveri con la fondazione di una cooperativa di consumo; nel 1920 toccò a padre Stefano Caronia, di Gibellina, organizzatore del partito Popolare, che si era messo contro il capomafia locale per aver difeso il “diritto alla terra” dei contadini.
Protagonisti del romanzo sono gli uomini e le donne della piccola comunità, le cui chiacchiere, voci, pettegolezzi, illazioni su quanto è accaduto sono raccontate da Francesco Marretta, giovane ferroviere, l’io-narrante del romanzo stesso che ci conduce nell’ambiente e nella vita del paese.
“Un anziano falegname, Biagio Tavella, diceva che padre Nuccenzio era stato il miglior prete mai venuto in paese, disponibile e generoso, mentre un suo vicino sosteneva che anche il defunto aveva i suoi difetti: chiedeva troppo per un matrimonio, un battesimo o un funerale, si arrabbiava facilmente e rimproverava dal pulpito qualche giovanotto che aveva saltato qualche messa domenicale o si era allontanato dalla pratica della messa domenicale. Qualcun altro faceva capire che il parroco teneva troppo a lungo al confessionale alcune donne che andavano tutte le mattine alla prima messa o facevano parte di qualche congregazione femminile”.
E c’è chi sosteneva che “padre Nuccenzio avesse fatto una brutta fine per questioni di politica: si era messo contro il comune da quando, dieci o dodici anni prima, aveva fatto diroccare il vecchio campanile e voleva soldi dal municipio per costruirlo più nuovo e più alto” e c’è chi dice che “il parroco si era intromesso nella lite tra il mastro bottaio e suo fratello per l’eredità del padre” dando ragione al primo”.
Tra i personaggi non può mancare il capomafia locale, espressione della prepotenza e dell’arroganza che impediscono lo sviluppo economico e sociale del territorio, bloccandone la vita democratica.
Nel romanzo è Don Luciano Sgroppo “benestante e consigliere comunale”, che entra discretamente in scena al funerale quando fa le condoglianze a Serafina Misseri, la sorella dell’arciprete, e che viene da lei notato perché è un “signore elegantissimo che non era certamente un lavoratore della terra”. È lui il mafioso del paese che controlla tutto e che si serve di un “suo braccio destro” per influenzare e condizionare i testimoni del processo.
“Mi ha fatto impressione Minico Tarantola, braccio destro di don Luciano, che stava davanti alla biglietteria. Man mano che arrivava qualcuno di sua conoscenza, il brutto ceffo ordinava allo sportello un biglietto di andata e ritorno per Palermo e glielo consegnava. …. Di fronte ai discorsi del malandrino, i compaesani reclutati facevano più volte di sì con la testa, poi andavano a bere un sorso d’acqua alla fontanella e a sistemarsi sul marciapiedi del primo binario in attesa che arrivasse il treno”
Chiamato a testimoniare al processo, don Luciano si fa avanti con “fare spavaldo e occhi di furetto, indossando un impeccabile completo di lino bianco. ….Lui era senz’altro di casa in quelle aule, tra avvocati e cancellieri. Chi tra il pubblico sapeva chi fosse, lo seguì con grande attenzione”.
La contrapposizione tra chi vuole mantenere immutato uno stato di cose, per esercitare il proprio potere, e chi si impegna per migliorarle, per essere al servizio delle persone, si coglie nelle differenza delle due figure, don Luciano Sgroppo, il mafioso locale, e don Innocenzo Misseri (padre Nuccenzio), l’arciprete, archetipi di due modi opposti di vivere nella storia e nel proprio tempo.
* insegnante di storia e filosofia presso il liceo “Don G. Colletto” di Corleone.
DI COSA PARLA IL LIBRO? Descrizione (fonte ibs.it) - Innocenzo Misseri, meglio noto come padre Nuccenzio, arciprete di Torrebruna, provincia di Palermo, viene ucciso davanti a casa sua, una sera primaverile del 1920. Tra lo sgomento dei parrocchiani emerge che il religioso, nelle sue ultime ore di vita, avrebbe riconosciuto come esecutore il giovane bracciante Stefano Piscopo. Ma la comunità stenta a credere che possa trattarsi del vero assassino. A interessarsi al caso anche il ferroviere Francesco Marretta, impiegato nella stazione locale, che conosce molto bene sia Stefano che il territorio in cui sono cresciuti. Torrebruna non è nuova ai misfatti né alle perdite, lo scopriamo man mano che Francesco sgrana le pagine del suo diario, che si aprono come scene in teatro: la sala del barbiere, l'interno giorno tra sarta e apprendista, i nudi scalini sotto casa sono tutte occasioni di passaparola che alimentano le ipotesi sul "chi" e sul "perché" che gravano sulla morte dell'arciprete. A chi potrebbe avere "dato fastidio"? L'ago non può che oscillare tra la vendetta personale e la "nuova mafia". Francesco delinea così la fisionomia di una società dominata dal latifondo, falcidiata dall'emigrazione oceanica, dall'epidemia di spagnola e dalla Grande guerra, in un momento storico in cui - per dirla con Tommaso Bordonaro - "la genti moriva accatastrofi". Compresi i preti. Prefazione di Nicola Grato. Postfazione di Bernardo Puleio.
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