venerdì, settembre 24, 2021

Una sentenza e molti misteri: la mafia tratta e non lascia prove


di Enrico Bellavia

In attesa delle motivazioni, si intuisce che per i giudici le richieste dei Corleonesi non furono accolte Ma resta da capire perché Ciancimino parlò coi carabinieri. E perché le bombe si fermarono nel ’ 94

La caccia ai responsabili della disfatta giudiziaria sullatrattativa Stato-mafia è solo all’inizio. Il tiro al bersaglio è del resto sport nazionale. Resta il fatto che dopo l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino, l’intero impianto accusatorio nei confronti delle divise, Subranni, Mori, De Donno, e del perno politico delle richieste a suon di bombe di Cosa nostra, ovvero Marcello Dell’Utri, ha iniziato a franare fino all’ultimo smottamento. È mancata la prova regina dell’accordo. E il superteste Massimo Ciancimino, qui a giudizio per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, si è afflosciato dimostrando tutta la sua inconsistenza.

Un furbetto che si è vestito da ventriloquo del padre morto, pronto a servire su un piatto d’argento quello che una parte dell’opinione pubblica avrebbe voluto sentir dire non in un’aula parlamentare, ma davanti allo scranno di una corte. 

La mafia tratta da sempre, non sarebbe altrimenti il soggetto politico che è. Capace di farsi classe dirigente, di pilotare carriere ed elezioni, di dettare condizioni e di vedersele accettate. La traiettoria legislativa del governo Berlusconi in materia di criminalità organizzata ha rappresentato oggettivamente un arretramento rispetto ai faticosi risultati raggiunti su sangue e lutti. E Dell’Utri per mafia è stato condannato. L’ondata di presunto garantismo ha travolto la legislazione sui pentiti e l’essenza stessa del carcere duro. Tuttavia, imbastire un processo che presuppone responsabilità personali fino a trascinare in giudizio il favore politico e raggiungere su questo prove solide non è esattamente semplice. 

Altra cosa dibatterne, come si dovrebbe per arrivare a giudizi netti sul piano della lotta politica. 

Il processo di Palermo ha inevitabilmente compiuto un ennesimo trasferimento di delega politica alla magistratura, chiedendo implicitamente che risolvesse l’enigma storico che tiene in ostaggio la Repubblica, da Portella della Ginestra in poi. 

lcontinua a pagina 2 

diEnrico Bellavia?segue dalla prima di cronacaPerché ogni volta che mafiosi e accoliti imbracciano le armi su inermi contadini, semplici cittadini o su giudici e poliziotti, l’effetto è quello di stabilizzare il quadro politico. Una schiera infinita di commentatori e analisti ci vede sempre e comunque la manina di servizi e apparati. Non senza fondamento. Altra cosa dimostrarlo nei processi. Se fosse semplice, non le chiameremmo manovre oscure. 

Le motivazioni della sentenza diranno perché i giudici hanno spaccato in due il tavolo ideale della presunta trattativa, fatto uscire dalla stanza lo Stato e lasciati inchiodati alla sedia solo Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. Da quel che si scorge dal dispositivo, sembra pacifico che i giudici abbiano considerato l’intera strategia stragista corleonese come una richiesta alla quale chi doveva non ha dato seguito. 

Iniziativa autonoma e non appoggiata politicamente anche quella dei carabinieri, messisi aragionare con Vito Ciancimino sulla cattura di Totò Riina. Senza nessuna contropartita, ci dicono i giudici. 

Quel che l’esito del processo, tuttavia, lascerà insoluto è il perché Ciancimino si sia spinto a parlare con i carabinieri che effettivamente catturarono Riina. A meno di non ipotizzare che lo abbia fatto in accordo con Bernardo Provenzano,nel pieno di una spaccatura al vertice di Cosa nostra che però non ha avuto alcuna conseguenza. 

Arrestato Riina, il 15 gennaio del 1993, perquisita con colpevole ritardo la casa della sua dorata latitanza, durata 24 anni, il cognato Bagarella ha proseguito imperterrito la strategia stragista esportandola al Nord. Vito Ciancimino è rimasto in vita fino al2002. Provenzano libero fino al 2006, al record della sua latitanza durata 43 anni. Dunque, l’ipotesi di un tradimento di Riina si scontra con l’evidenza di un’assenza di vendetta da parte dei suoi. 

Restano invece le sue parole, riferite dai pentiti o apprese dalle conversazioni captate in cella e perfino tra le pieghe delle sue esternazioni processuali. «Loro mi cercavano», riferito allo Stato. «Ci vuole un’altra botta», fra la strage Falcone e quella Borsellino. «Si sono fatti sotto», quando evidentemente qualche segnale di apertura dopo le prime bombe era arrivato. Con Bagarella alla guida dello squadrone della morte, per tutto il 1993, si prosegue con il tritolo al Nord. Poi improvvisamente tutto si ferma con il fallito attentato all’Olimpico a Roma, nel 1994. 

Bagarella era ancora libero allora, sarà arrestato solo l’anno successivo. Perché le bombe cessarono? Se si sposa la lettura che fa di Cosa nostra e del suo vertice un manipolo di sanguinari senza altri obiettivi, non si comprende perché i boss abbiano imboccato la strada della resa. 

No, dobbiamo rassegnarci all’ideache questa trattativa non ci sia stata. Che avere trasformato un processo in una partita da giocare in televisione, dopando carriere di sedicenti esperti, è stato un pessimo servizio alla verità. Perché da quell’aula escono sollevati gli imputati e tremendamente ringalluzziti i negazionisti cui fa comodo ridurre la mafia a qualcosa di molto simile a una banda dicriminali, senza né tattica né programma, salvo poi citare a sproposito Falcone e Borsellino. 

La dittatura corleonese su Cosa nostra è una lunga parentesi nella storia infinita dell’egemonia mafiosa su intere porzioni di territorio, non solo al Sud. Essersi giocati tutto al tavolo di una spiegazione fin troppo lineare, nel palazzo di giustizia di Palermo, nonchiude la questione dei rapporti tra mafia e politica e tra mafia e apparati. Come emerso in altri processi e non solo a Caltanissetta ma anche a Firenze. Con le bombe, Cosa nostra ha chiuso, almeno fino a ora. Si è fatta silente e accomodante. Ma continua a esistere, a prosperare e certamente a trattare. 

La Repubblica Palermo, 24/09/2021

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