di Augusto Cavadi
Un arcivescovo-pastore ha saputo tratteggiare, con sobria autenticità, la figura di don puglisi, martire-pastore. Chi conosce un po’ la situazione ecclesiale siciliana, però, non può evitare di notare una lacuna: l’autocritica. Almeno un accenno di autocritica. Almeno su tre aspetti della questione.
Primo: di pino puglisi, monsignor lorefice scrive – pertinentemente – che «era veramente un pedagogo, aveva nel sangue una capacità maieutica: far crescere l’altro e condurlo alla vita adulta, alla piena statura dell’intrinseca e inalienabile dignità umana, alla libertà dei figli di dio». Ma i preti della nostra diocesi sono, in maggioranza, sulla stessa linea emancipativa o mostrano diffidenza, paura, talora disistima nei confronti dei fedeli laici delle proprie comunità?
L’arcivescovo sa quanti sono i suoi preti (anziani e – cosa ancor più
triste – giovani) arroccati nella propria posizione di "capi",
incapaci di condividere responsabilità e funzioni con donne e uomini della
parrocchia, molto spesso più "maturi" e più "saggi" di
loro. È chiaro che non dipende da un arcivescovo la mentalità dominante dei
suoi presbiteri, che egli deve costruire case con gli operai a disposizione. Ma
ammettere, pubblicamente, che ancora troppi parroci si interpretano e si
comportano come "boss" cui si deve rispetto e obbedienza, sarebbe un
atto di trasparenza evangelica.
Secondo aspetto: secondo monsignor lorefice, don pino puglisi, convinto che
«il vangelo diventa lievito di trasformazione della storia», «si era battuto
per avere scuole, centri per anziani e giovani, spazi aggregativi e di
confronto, coinvolgimento delle istituzioni». Ebbene, anche su questo versante,
quando si ode la voce delle comunità parrocchialiper chiedere, a fianco dei
cittadini di ogni appartenenza religiosa o partitica, che le istituzioni
funzionino almeno decentemente a presidio della legalità sostanziale? Il clericalismo,
denunziato tante volte dall’attuale papa-pastore francesco, è solitamente
congiunto a un devozionismo auto-referenziale: la vitalità di una parrocchia
viene misurata sul numero delle "prime comunioni" e delle
"cresime" che vi si celebrano, non sulla incidenza reale nel tessuto
sociale circostante, al cui degrado ci si abitua come a dati naturali
immodificabili.
Infine, un terzo aspetto della questione: memore della ricerca
intellettuale in cui era impegnato il parroco di brancaccio, l’arcivescovo di
palermo (che nel suo discorso di presentazione dal balcone del municipio citò
peppino impastato accanto a don puglisi) ricorda che «l’antimafia vera è quella
di uomini e di donne che nella fedeltà agli impegnidella loro vita personale,
familiare e sociale, erodono il campo alla cultura e alla prassi mafiosa che
arreca un grave pregiudizio allo sviluppo economico, sociale e culturale dei
nostri territori».
Perfetto! Ma per contrastare la cultura e la prassi mafiose bisognerebbe
conoscerle, o no? Avere delle cognizioni essenziali, ma scientificamente serie
e aggiornate. Tranne qualche lodevole eccezione di preti ben noti (che, tra
l’altro, dopo essere stati isolati dai propri confratelli come fastidiosi
grilli parlanti, sono andati o si avviano ad andare in quiescenza per ragioni
di età) e di qualche laico-credente (che, comunque, percepisce se stesso come
voce clamante nel deserto), una formazione sulla mafia – sulla sua storia,
sulla sua struttura attuale, sui legami con la politica e l’economia, sulla sua
visione del divino e dell’etica – è pressoché assente sia nel percorso di studi
teologici dei nuovi preti sia nelle catechesi parrocchiali per giovani e per
adulti. Così anche negli ambienti ecclesiali, come nel resto della società
italiana, la mafia c’è se spara e fa stragi col tritolo; non c’è se chiede il
pizzo all’ottanta per cento dei commercianti e degli imprenditori di ogni
settore; se ricicla somme da capogiro mediante banche compiacenti; se corrompe
funzionari pubblici ad ogni livello per lucrare sullo smaltimento dei rifiuti o
sullo spaccio delle droghe illegali. L’ignoranza sul vero volto del sistema
mafioso – sulla sua ammirevole capacità di mantenere l’identità tradizionale
adattandola alle svolte epocali – è un regalo che le agenzie educative (dunque
anche le chiese cristiane) non dovrebbero permettersi di omaggiare gli uomini e
le donne del disonore.
La repubblica palermo, 15/9/21
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