La Corte pronuncia la sentenza
di MARCO TRAVAGLIO
I nove decimi dei giornali e dei tg raccontano la sentenza d’appello sulla Trattativa senz’avere la più pallida idea di cosa dica. Infatti le fanno dire che la trattativa Stato-mafia non è mai esistita. Magari: almeno si spiegherebbero le assoluzioni dei tre carabinieri del Ros e di Dell’Utri. Invece non è così: infatti sono stati condannati il boss Bagarella e il medico mafioso Cinà. Le motivazioni sono lunghe e per capirle bisogna almeno leggerle: troppa fatica per i mafiologi della mutua. Ma i dispositivi sono brevissimi: questo è di due pagine. E lo capisce anche uno scemo: se “il fatto non sussiste”, vuol dire che non è successo niente (ma questa formula, nella sentenza, non compare mai); se “il fatto non costituisce reato” (com’è per Mori, Subranni e De Donno), vuol dire che il fatto è vero, ma non è illecito; se si legge “non aver commesso il fatto” (com’è per Dell’Utri), vuol dire che il fatto è vero, ma l’ha commesso qualcun altro.
Qual era il “fatto” alla base dell’accusa di “minaccia
a corpo politico dello Stato”, cioè ai governi Amato, Ciampi e B.? Questo: i
boss, i tre carabinieri e Dell’Utri, con altri morti nel frattempo o rimasti
ignoti, “usavano minaccia – consistita nel prospettare… stragi, omicidi e altri
gravi delitti (alcuni dei quali commessi e realizzati) ai danni di esponenti
politici e delle Istituzioni – a rappresentanti di detto corpo politico per
impedirne o comunque turbarne l’attività”. Vediamo il ruolo dei quattro
assolti. Il “fatto” addebitato ai tre ufficiali del Ros e confermato dalla
sentenza è di aver “contattato, su incarico di esponenti politici e di governo,
uomini collegati a Cosa Nostra (in particolare, Ciancimino… nella veste di
tramite con uomini di vertice della predetta organizzazione mafiosa e ‘ambasciatore’
delle loro richieste)” per “sollecitare eventuali richieste di Cosa Nostra per
far cessare la strategia omicidiaria e stragista”; poi di aver “favorito lo
sviluppo di una ‘trattativa’ fra lo Stato e la mafia, attraverso reciproche
parziali rinunce in relazione, da una parte, alla prosecuzione della strategia
stragista e, dall’altra, all’esercizio dei poteri repressivi dello Stato”;
infine di aver “assicurato il protrarsi dello stato di latitanza di Provenzano,
principale referente mafioso della ‘trattativa’” ; così “agevolavano la
ricezione presso i destinatari ultimi della minaccia di prosecuzione della
strategia stragista” e “rafforzavano i mafiosi nel proposito criminoso di
rinnovare la minaccia”. Il “fatto” contestato a Dell’Utri è di essersi
“proposto e attivato”, subito dopo l’omicidio di Salvo Lima (12 marzo ’92) “e
in luogo di quest’ultimo, come interlocutore” del “vertice di Cosa Nostra per
le questioni connesse all’ottenimento dei benefici sopra indicati”.
Non solo: Dell’Utri avrebbe “successivamente rinnovato
tale interlocuzione con i vertici di Cosa Nostra, in esito alle avvenute
carcerazioni di Ciancimino e di Riina, così agevolando il progredire della
‘trattativa’ Stato-mafia… quindi rafforzando i responsabili mafiosi della
trattativa nel loro proposito criminoso di rinnovare la minaccia di
prosecuzione della strategia stragista; agevolando materialmente la ricezione
di tale minaccia (portata da Mangano su mandato di Bagarella e Brusca, nda)
presso alcuni destinatari e… favorendone la ricezione da Berlusconi” appena
insediato a Palazzo Chigi. Quest’ultimo passaggio è l’unico “fatto” che la
Corte ritiene non provato: è certo che i mafiosi gli fecero sapere quali favori
pretendevano dal governo B. per mantenere la pax mafiosa, ma non che Dell’Utri
ne avvertì B. Il quale quindi li favorì non perché fosse sotto ricatto, ma sua
sponte.
I fatti che raccontiamo da anni sono dunque veri. E
bastano e avanzano per un giudizio, se non penale, almeno politico,
istituzionale e professionale non tanto su Dell’Utri (pregiudicato per mafia),
quanto sui tre “servitori dello Stato” che trattarono con Cosa Nostra anziché
combatterla. Non era reato? È la tesi della Corte. Ma che trattarono non c’è
dubbio: infatti nel ’97, appena Brusca svelò la trattativa, anche Mori e De
Donno la chiamarono così. Ora si dice che finsero di trattare in un’astuta
operazione di infiltrazione per raccogliere informazioni e catturare Riina. E
allora perché non avvertirono i pm né il vertice dell’Arma, non verbalizzarono
e non pedinarono Cinà (il postino che portò a Riina i loro messaggi affidati a
Ciancimino sr. e tornò indietro col papello) né Ciancimino jr. (il postino del
padre)? Perché non perquisirono il covo di Riina? Perché non arrestarono
Santapaola, scovato da un collega a Terme di Vigliatore? Perché non catturarono
Provenzano, consegnato da un pentito a Mezzojuso? Buon per loro che siano stati
assolti. Ma quei “fatti” restano: qualcuno vuole scoprirne il perché? Erano dei
fessi incapaci o degli agenti deviati? La trattativa incoraggiò Cosa Nostra a
uccidere Borsellino, la sua scorta e tanti altri innocenti nel ’93. La loro
brillante attività investigativa produsse una catastrofe senza pari. Data anche
l’età, nessuno vuol mandarli in galera. Ma, se passa l’idea che trattare con la
mafia è lecito, o financo doveroso, perché mai un giudice dovrebbe condannare
un mafioso a rischio della vita, anziché mettersi d’accordo? Perché un
ufficiale dovrebbe catturare i mafiosi giocandosi la pelle, anziché lasciarli
andare? Perché un negoziante dovrebbe rifiutare il pizzo ai mafiosi rischiando
rappresaglie, anziché farci amicizia?
Ilfattoquotidiano, |
25 SETTEMBRE 2021
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