di ROSARIO DAIDONE
Ho finito di leggere il romanzo di Santo Lombino, “Né luna né santi” e devo confessare, da semplice lettore e non da critico letterario - professione che non mi appartiene - che mi ero avvicinato al volume, pur conoscendo l’autore e le sue competenze, con una piccola dose di prevenzione per lo scetticismo che nasce dalla miriade di romanzi ultimamente pubblicati da molti “scrittori”.
Questa di Lombino è un‘opera di letteratura seria. Sottende e rivela, nell’intreccio della vicenda narrata, un aspetto che oserei definire di “questione meridionale” (miseria, violenza e omertà comprese) che l’autore, non estraneo al mondo sindacale, conosce perfettamente anche come coordinatore di ricerche sui moti popolari del primo Novecento, tanto che il romanzo sembra configurarsi come appendice creativa dei suoi interessi storici compreso il rigore che essi esigono.
Sulla lingua utilizzata la padronanza è assoluta, la scorrevolezza è assicurata come se si ascoltasse con interesse e attesa un esperto narratore di vicende vissute su cui spesso si è meditato e che si è deciso, incurante della moda, di condividere con una cerchia allargata di lettori. Mi pare che egli abbia, con onesta cognizione di causa, misura e arguzia, narrato senza cedere alle lusinghe del “giallo” e del sensazionale, un fatto di sangue, (l’omicidio di un innocente, di nome e di fatto, prete di paese) pretesto dei susseguenti sviluppi che accadono in un piccolo nucleo di provincia di cui l’autore restituisce usi costumi e mentalità che ben conosce per diretto e intenso coinvolgimento. Il personaggio, Marretta, che narra gli accadimenti, e ne è in qualche modo coinvolto, si esprime come può farlo realmente un impiegato delle ferrovie, mondo di cui lo stesso Lombino ha fatto diretta esperienza per motivi di lavoro prima di approdare alla laurea in filosofia e all’insegnamento che l’aiutano a guardare dal di fuori e dall’alto con la telecamera culturale del drone la realtà di un paese che è il suo, una busambrina Torrebruna che non è geograficamente difficile individuare. Il romanzo si configura quindi come una testimonianza di vita vissuta, lo spaccato di un piccolo paese con i suoi riti e i suoi miti non escluso il mito di un’America in cui è facile far fortuna anche ai gonzi che dalle nostre parti sarebbero rimasti, senza la dote della scaltrezza necessaria, economicamente esclusi. Vantaggi della spartenza. Le indagini storiche e le relazioni processuali nella loro virgolettata trascrizione rivelano, con diverso tono, la serietà della ricerca e della documentazione in possesso dell’autore. Il libro in tal senso mi sembra appartenga, nonostante muova da un omicidio, più che al “giallo” al genere “storico”, estraneo, per quanto può consentirlo un’opera letteraria, alla scivolosa mescolanza con la fantasia teorizzata dal Manzoni. Né il romanzo (occorre dirlo) ha alcun debito nei riguardi di Montelusa, nemmeno dal punto di vista del linguaggio che, nell’illusione del successo, recluta oggi gran seguito d’imitatori. I caratteri ben delineati dei personaggi del romanzo di Santo, mi viene in mente la figura scolpita a tutto tondo della pettegola aiuto-levatrice Maranunzia, appartengono al teatro della vita di un periodo che precede non di molto il nostro, la “civiltà contadina” del poeta-pecoraio Giardina, cui lo scrittore guarda con velata nostalgia, sentimento che al tono generale della narrazione non si può negare. Essa si affaccia sottesa in tutta l’opera. Non si pensi tuttavia che si tratti di una visione ristretta e vernacolare, giacché nel paese siciliano i personaggi che vi si agitano assumono carattere universale, potrebbero essere veneti o brianzoli, onesti o imbroglioni, mafiosi, piccoli o grandi, meschini o generosi, perdono il loro nomignolo per assumere quello di uomini. La narrazione, volutamente breve -non romanzo, ma “racconto lungo” in scansione diaristica di giorno mese ed anno a rimarcarne la veridicità- punta all’essenza priva di sfoggi e sbavature, la ricercatezza a tutti i costi non vi trova spazio. Per dirla con gli esponenti del Verismo, l’opera, in cui il giudizio è sospeso, contando il silenzio più che la parola dell’autore, sembra essersi “fatta da sé”. Un’eredità letteraria tota nostra che in una visione dinamica moderna Santo Lombino possiede e modula con magistrale destrezza.
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