di Mari Albanese* e Antonella Di Bartolo**
Le donne afghane stanno chiedendo al mondo di accorgersi di loro, delle loro libertà in pericolo, mentre la loro terra è caduta in mano ai talebani che le riporteranno dritte nell’oscurantismo del medioevo della civiltà. Facciamo un esercizio di pensiero: immaginiamo che all’improvviso qualcuno arrivi a casa nostra e inizi a strappare i nostri vestiti scollati, a bruciare le nostre gonne, i nostri libri, ad impedirci di uscire come e quando vogliamo. Che qualcuno ci costringa a lasciare il lavoro, a rinunciare ai nostri sogni, a non scrivere i nostri pensieri, a ribellarci se necessario per reclamare i nostri diritti. Immaginiamo che ci strappino via le nostre figlie per darle in matrimonio, ancora bambine, a uomini che non hanno scelto.
Tutto tornerà ad accadere in Afghanistan nel silenzio assordante della comunità internazionale se è ciò che gli equilibri geopolitici imporranno o semplicemente tollereranno.Noi quella porta che temiamo segregherà nella violazione dei principi democratici e nella violenza migliaia e migliaia di donne e ragazze non vogliamo chiuderla; desideriamo spalancarla, piuttosto, per scongiurare nuovi orrori e deprivazioni. I riflettori non illumineranno mai le vite private delle donne di Kabul e presto si spegneranno anche sul loro paese. Quando il rumore confuso della guerra e della fuga si farà flebile, avremo dimenticato le donne afghane in quella parte di mondo con le loro solitudini e le loro libertà perdute.
Queste righe, forse non a caso, sono scritte da due donne siciliane, educatrici di professione. LaSicilia è solo di recente uscita dal medioevo culturale che privava le donne di diritti e piena dignità. I racconti delle nostre nonne, perfino delle nostre madri narrano di pesanti discriminazioni di genere, dall’istruzione alla sfera più intima e personale; ancora oggi troppe bambine e ragazze subiscono scelte altrui e non hanno accesso ad alcuni ambiti e livelli di formazione.
Ci siamo liberate da poco dai nostri burqa, le velette scure sul capo, gli abiti e le calze nere. Per noi, sentire come una minaccia personale il ritorno dell’oscurantismo per le donne di Kabul significa riconoscere il valore della memoria.
Fino a quando esisterà nel mondo una donna a cui viene negata la libertà, ciascuno di noi –uomoo donna che sia- ha il dovere di sentirsi allo stesso modo violentato e annichilito.
Quello che accade a distanza da noi ci riguarda tutte e tutti: i nostri rappresentanti istituzionali, interpretando l’indignazione di ogni cittadino e cittadina del nostro paese che si dice civile, hanno il dovere di fare eco alla voce delle donne afghane, che rischia di essere messa a tacere.
Diversamente smarriremo il senso profondo della storia che permette oggi a noi di essere le donne che siamo, alle nostre figlie le donne che vorranno essere, ai nostri figli di essere uomini e compagni più consapevoli. Lo dobbiamo alle tante donne che hanno lottato per una società più giusta, a coloro cui è stata negata la libertà di parola e l’espressione del voto fino all’altro ieri, alle donne che dovevano ignominiosamente subire un matrimonio “riparatore” con il loro stupratore, lo dobbiamo alle tante, troppe donne maltrattate, stuprate, uccise.
Non volgiamo lo sguardo altrove, e chiediamo che la comunità internazionale non lo faccia: proteggiamo le bambine e le donne afghane, siano loro garantite dignità e libertà con ogni mezzo, possano beneficiare di corridoi umanitari e ottenere asilo nei paesi occidentali cui faranno richiesta.
Le donne afghane siamo noi, donne e uomini che afghani non sono.
*Insegnante e scrittrice.
**Preside dell’Istituto comprensivo statale “Sperone-Pertini” di Palermo
La Repubblica Palermo, 18/8/2021
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