lunedì, agosto 16, 2021

Cosa nostra cambia nome: ora i boss la chiamano "L’altare maggiore"

La cappella del covo di Aglieri a Bagheria

di SALVO PALAZZOLO
L’espressione è emersa in un’intercettazione fra due padrini arrestati a Torretta

Da almeno vent’anni, è un chiodo fisso per i padrini. « Bisogna cambiare tutti i nomi — disse un giorno Bernardo Provenzano — Non parliamo più di picciotti, né tanto meno di uomini d’onore, di famiglie o mandamenti, mai più nominiamo la Cupola». Adesso, sembra che il nome più importante i boss l’abbiano trovato. Un nome nuovo per Cosa nostra: "L’altare maggiore". Così due mafiosi di Torretta chiamavano l’organizzazione discutendo di un’estorsione, e non sospettavano di essere intercettati dai carabinieri del nucleo Investigativo di Palermo su ordine della procura. I mafiosi continuano a mettere insieme sacro e profano. Un’altra fissazione, nonostante la scomunica ribadita da papa Francesco.

" L’altare maggiore", dunque. E non è solo una questione di immagine per i boss. Bernardo Provenzano, il capo di Cosa nostra dopo le stragi del 1992, aveva addirittura nominato una commissione di studio per aggiornare il dizionario mafioso: «Cambiare nomi doveva servire ad evitare altri guai con le intercettazioni », ha spiegato il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, il capomafia di Caccamo con un passato da professore di educazione tecnica e una reputazione criminale di grande saggio, lui era stato incaricato di presiedere la commissione per le riforme mafiose.

Ora, i boss di Torretta, in stretto contatto con i Gambino di New York, hanno trovato un nome suggestivo. " L’altare maggiore". Pensavano così di scansare il Grande fratello dell’antimafia che negli ultimi anni ha fermato più volte la riorganizzazione di Cosa nostra, smascherando movimenti e tracce.

Un’altra intercettazione, il 29 maggio 2018, ha svelato una riunione della commissione provinciale di Palermo, la prima dopo l’arresto di Totò Riina, avvenuto nel gennaio 1993. Quella volta, il capomafia di Villabate Francesco Colletti parlava al suo autista di " rappresentanti" che si erano riuniti per un incontro solenne. Provenzano aveva visto lontano, le intercettazioni restano uno strumento straordinario per entrare nei segreti delle mafie.

Camuffamenti di parole a parte, l’espressione " altare maggiore" solleva anche un altro fronte di riflessioni. I padrini insistono per avere una religione tutta propria. Leggete cosa diceva qualche mese fa un altro mafioso a proposito del parroco di Brancaccio ucciso per ordine di Cosa nostra nel 1993: «Padre Puglisi santo… ma santo di che? — così commentava un boss di Pagliarelli, anche lui sicuro di non essere intercettato — Ha fatto miracoli? Una volta ti facevano santo quando facevi i miracoli, questo miracoli non ne ha fatti». Lo stesso odio di Giuseppe Graviano, il padrino di Brancaccio che decretò la morte del sacerdote: « Mi hanno raccontato che era un uomo litigioso — diceva al compagno dell’ora — mi hanno raccontato che aveva problemi con tutti, che insultava le persone, che diceva parolacce e che durante le omelie accusava e offendeva ». I boss vogliono riprendersi l’altare maggiore, sognano i preti accondiscendenti di un tempo e le confraternite complici degli inchini. Incuranti delle scomuniche, che presto saranno anche scritte nei documenti della Chiesa, a questo sta lavorando la commissione speciale voluta dal Papa, ne fanno parte don Luigi Ciotti e l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone.

In quella espressione che i due mafiosi di Torretta si ripetevano, sicuri di non essere scoperti, c’è tutto il drammatico piano di riorganizzazione di Cosa nostra, che non sembra per nulla fiaccata da arresti e processi. "L’altare maggiore" non è quello dei Corleonesi fedeli a Totò Riina e Bernardo Provenzano; adesso nei primi banchi si sono seduti i " perdenti" di un tempo, ritornati dagli Stati Uniti dopo un lungo esilio. Mafiosi che hanno un rito diverso, hanno soprattutto santi diversi sull’altare maggiore.

La Repubblica Palermo, 15 agosto 2021

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