Dall'edizione siciliana de "La Repubblica" dell'otto luglio 2010 recupero questa testimonianza di Franco Padrut sul luglio 60 a Palermo e sulla morte di Vella, propiziata dalla polizia di Tambroni. Rievoco così, insieme, una pagina ingloriosa della storia repubblicana e un dirigente del movimento operaio che mi è stato caro e che è prematuramente scomparso nel gennaio 2011. (S.L.L.)
FRANCO PADRUT
Giugno 1960. Sono gli ultimi giorni di scuola. La città è scossa dagli scioperi: si sciopera per il salario, si sciopera per i diritti. Il 27 un possente sciopero generale scuote la città. Corso Vittorio Emanuele è quasi giornalmente invaso dai manifestanti. I più agguerriti sono i netturbini. Vengono dai Quattro canti con le loro carriole vuote e innalzano lunghe scope. Giunti alla Cattedrale sono bloccati da un cordone di poliziotti armati di tutto punto, alcuni a piedi, altri sulle camionette. Quando va bene gli scioperanti tornano indietro e si disperdono per il Papireto, quando va male si accendono scontri furibondi. Tifiamo per gli scioperanti, se possiamo li aiutiamo, poi al suono della campanella, che si sente fino alla Cattedrale, torniamo di corsa a scuola. Luglio 1960. La scuola è finita. Per le strade si parla ancora dello sciopero del 27 giugno, degli scontri con la polizia, dei fermati. Nei bar, davanti ai juke-box i ragazzi vantano mirabolanti vittorie sul campo. Sbirri disarmati, manganellate ricevute e la promessa che debbono vendicare i compagni bastonati e fermati.
Venerdì 8 luglio è il giorno dello sciopero generale nazionale proclamato dalla Cgil contro il governo Tambroni e l' eccidio di Reggio Emilia, dove sono stati assassinati cinque giovani. Io e il mio amico Pippo decidiamo di partecipare allo sciopero. Alle 14 ci incamminiamo per piazza Politeama. Le strade sono deserte. Non si vedono autobus né macchine. Le finestre delle case sono chiuse. Giunti a piazza Massimo scorgiamo capannelli di persone, in maggioranza giovani, alcuni giovanissimi. Discutono animatamente e occupano l'incrocio fra via Cavour e via Ruggero Settimo. All' altezza di via Rosolino Pilo una barricata occupa la strada. Giovani manifestanti proteggono la barricata e discutono animatamente. Ancora un centinaio di metri e all' altezza di via Mariano Stabile, fra Barbisio e il Bar Sacchiero un'altra barricata ostruisce la strada. Attraversiamo via Mariano Stabile. Sul fondo, all'altezza di via Roma, scorgiamo uno schieramento di polizia in pieno assetto di guerra con dietro camionette e camion. Proseguiamo per piazza Politeama. All' altezza di via Principe di Belmonte è in corso una dura battaglia: la polizia è sotto scacco quando sentiamo il crepitìo degli spari dei fucili, il fischio delle pallottole che si schiantano sui muri dei palazzi di via Ruggero Settimo. Fuggiamo. La strada per piazza Politeama è bloccata da una colonna di polizia che compare all'improvviso. Non resta che dirigerci vero il Massimo dove sono state erette altre barricate. Improvvisamente da via Mariano Stabile irrompe la polizia che si era schierata su via Roma. I Quattro canti sono occupati da camionette e agenti armati. I manifestanti fuggono per raggiungere la barricata di via Rosolino Pilo. Noi che venivamo da via Belmonte restiamo intrappolati e nel volgere di pochi minuti, attaccati a forza di manganellate, caricati su due camion portati su Piazza della Vittoria, alla Questura.
Ci fanno scendere dai camion. A forza di spintoni ci fanno varcare la soglia dell' atrio. Ci aspettano due file di poliziotti armati di manganelli, cinturoni, scudisci che, gridando come ossessi, si accaniscono su di noi menando botte da orbi. Si va di corsa, cercando di stare al centro per evitare di venire a contatto con i nerboruti poliziotti. Al termine della corsa finiamo in una grande stanza dove ci chiudono dietro le sbarre di un robusto cancello. Col passare del tempo giungono altri prigionieri. Lo stanzone si riempie all' inverosimile, non c' è più posto, gli ultimi arrivati si arrampicano sulle grate del cancello. L'aria comincia a mancare e i prigionieri gridano. Verso le 21 cominciano a fare uscire i primi fermati.
Verso le 23 ci caricano su dei camion ci portano all' Ucciardone nella sala dei colloqui. Trascorrono le ore, la sete si fa sentire, gridiamo, chiediamo acqua. Verso le tre del mattino ci portano dei secchi pieni di acqua. Passa la notte, è il 9 luglio. Il sole batte sul tetto del padiglione dei colloqui. Le finestre sono poche. L' aria si fa sempre più cattiva. Si suda e non ci si può lavare. Verso mezzogiorno, ci vengono lanciate della pagnotte dure come il legno, formaggini e cotognate. Si scatena una bagarre a chi ne acchiappa di più e si apre un baratto fra formaggini e cotognate. I più stanchi sono distesi per terra, altri accovacciati con le spalle al muro. I più resistenti passeggiano da una parte all' altra del padiglione. I feriti non ricevono alcuna cura. Ci si interroga sulle intenzioni dei nostri carcerieri. Verso le 20 cominciano a chiamare i fermati. Tutti ci accalchiamo davanti al cancello, Ad un tratto sento il nome di Pippo e il mio. Ci fanno uscire dallo stanzone. Finalmente all' aria aperta. Un maresciallo ci attende. Con fare bonario ci dice che possiamo andare a casa e ci da una bella strigliata dicendoci che gli studenti non si debbono mescolare con la teppaglia comunista.
Fuori dai cancelli dell' Ucciardone sembra di volare. Le distanze sembrano annullarsi. Rifacciamo, al contrario, la strada dell' andata. La città ci sembra normale. Alcune panchine rotte, la mancanza delle cabine telefoniche, i buchi alle pareti del palazzo di fronte via Belmonte ci ricordano la battaglia del giorno precedente. L'edicola all' angolo di via Mariano Stabile mostra ancora la prima pagina del Giornale di Sicilia del mattino. Leggiamo il titolo. Ci sono stati tre morti, per il Giornale non contano niente, contano le aiuole e i sedili del salotto della città divelti da una teppaglia di rivoltosi.
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