Brusca schiacciò il telecomando per la strage di Capaci
di GIUSEPPE PIGNATONE
La definitiva scarcerazione di Giovanni Brusca ha suscitato un vivace
dibattito nell’opinione pubblica e reazioni molto negative specialmente tra
alcuni familiari delle vittime dei delitti di cui egli si è riconosciuto
colpevole. Maria Falcone, sorella del giudice assassinato a Capaci, ha invece
correttamente commentato la notizia, dicendo: «Umanamente è una notizia che mi
addolora, però questa è la legge, che peraltro ha voluto mio fratello, e quindi
va rispettata». In effetti Brusca è stato scarcerato perché ha interamente scontato la pena
massima di trent’anni di reclusione inflittagli, in quanto collaboratore di
giustizia, invece dell’ergastolo, secondo quanto previsto dalla legge 15 marzo
1991 n. 82, approvata due mesi prima dell’arrivo di Giovanni Falcone al
ministero della Giustizia, ma da lui ispirata e fortemente voluta sulla base
delle esperienze palermitane, a cominciare dalle dichiarazioni rese nel 1984 da
Tommaso Buscetta.
Negli anni precedenti erano stati approvati — a partire dal decreto legge
15 dicembre 1979 n. 625 — ben dieci provvedimenti che prevedevano benefici e
agevolazioni sempre più ampie per i terroristi che decidevano di collaborare
con lo Stato. Nulla, invece, era stato deciso per la mafia, forse nel
convincimento — errato — che per i crimini “politici” si potesse sempre
ravvisare una scelta ideologica, non ipotizzabile nel caso dei mafiosi. Oltre a
ciò, ragione ben più grave, pesava il fatto che mentre il terrorismo era visto
come un pericolo mortale per la Repubblica, nell’opinione pubblica, anche la
più qualificata, mancava la consapevolezza della ben maggiore gravità
rappresentata dalla minaccia mafiosa. Una miopia che sarebbe perdurata fino
alla stagione delle stragi.
La legge del 1991 è invece determinata proprio da questa consapevolezza
all’epoca patrimonio di pochi, maturata a fronte della serie infinita di
omicidi di esponenti delle istituzioni in Sicilia, specialmente a Palermo, e
dei risultati, eccezionali ma non decisivi, del primo maxi-processo.
Fu così che 30 anni fa vide finalmente la luce quella disciplina
complessiva dei benefici per i mafiosi che decidevano di collaborare con la
giustizia, a partire proprio dalla sostituzione dell’ergastolo fino a un
articolato sistema di protezione esteso ai familiari.
La legge fa chiarezza anche sui termini e sulle ragioni di questo
trattamento premiale: non è in gioco un ravvedimento ideologico, religioso o
morale (cui alludeva il termine improprio di “pentiti”), si tratta invece di un
contratto tra lo Stato e l’aspirante collaboratore, che si impegna a riferire
ciò che sa sull’organizzazione e sui delitti da questa commessi, a cominciare
dai propri, ricevendo in cambio la tutela dello Stato.
A trent’anni dalla sua approvazione, va riconosciuto che la legge ha
raggiunto il suo scopo: centinaia di capi e gregari di Cosa nostra,
’ndrangheta, camorra e mafie pugliesi hanno deciso di collaborare, consentendo
di fare luce su numerosissimi delitti, facendone condannare (dopo i necessari
riscontri) gli autori, permettendo la cattura di latitanti e la confisca di
beni per miliardi di euro.
Particolarmente importanti in questo percorso sono state, ovviamente, le
dichiarazioni di personaggi apicali quali Giovanni Brusca. Ed è significativo
che oggi l’organizzazione mafiosa più potente e pericolosa sia la ’ndrangheta:
i collaboratori provenienti dalle sue file sono stati finora in numero ridotto
e di rango abbastanza basso, quindi con limitate informazioni a disposizione.
Questo contesto non può essere dimenticato di fronte alla (pur
comprensibile) reazione emotiva per la scarcerazione dell’autore materiale
della strage di Capaci nonché responsabile dell’assassinio del piccolo Giuseppe
Di Matteo, e va anche aggiunto che in passato altre figure responsabili di
identica ferocia sono state scarcerate in tempi persino più brevi, nel
disinteresse generale. Né va dimenticato che solo poche settimane fa la Corte
Costituzionale ha affermato che la possibilità di liberazione condizionale va
introdotta anche per i mafiosi condannati all’ergastolo che non abbiano mai
collaborato con la Giustizia.
Massimo rispetto, dunque, per le accorate reazioni di famiglie colpite dal
lutto per mano mafiosa, ma come ha detto Maria Falcone, lo Stato deve
rispettare per primo le leggi che emana. Né alcuna critica può essere rivolta
ai giudici della Corte di Appello di Milano che hanno disposto la scarcerazione
di Brusca senza alcuna valutazione discrezionale, ma solo conteggiando la
riduzione di 45 giorni di pena per ogni sei mesi espiati, secondo la norma da
applicare a qualunque condannato che abbia tenuto negli anni un positivo
comportamento in carcere. Peraltro, nei prossimi quattro anni Brusca sarà
sottoposto a libertà vigilata e per un periodo probabilmente maggiore anche
alla sorveglianza connessa alle misure di protezione disposte nei suoi
confronti.
Un’ultima notazione. Ormai da anni la prova principale nei processi di
mafia è costituita dalle intercettazioni, una prassi investigativa oggetto di
feroci critiche da quegli stessi che di fronte alle dichiarazioni dei “pentiti”
invocano riscontri “oggettivi”, basati su acquisizioni tecniche e non su altri
dichiaranti. Tuttavia, i collaboratori di giustizia rimangono a oggi uno
strumento fondamentale per conoscere le mafie dall’interno ed essere così nelle
condizioni di meglio contrastarne le attività criminali.
Sempre che si sia realmente convinti, come ha detto pochi giorni fa il
presidente Mattarella, che la lotta alle mafie «deve restare una priorità
nell’agenda politica».
La Repubblica, 2 giugno 2021
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