Milano, 1946. Dopo il referendum piazza G. D'Annunzio
diventa piazza della Repubblica
di EZIO MAURO
2 giugno 1946-2021. CRONACA DI UNA RIVOLUZIONE DEMOCRATICA: Cosa accadde quel 2 giugno del 1946, esattamente
75 anni fa. Quando gli italiani si svegliarono per l’ultima volta in un Regno
All’alba della Repubblica, il 2 giugno 1946, il sole si era alzato su Roma
alle 5,37, con la temperatura di 13 gradi che nel corso della giornata
sarebbero diventati 28, e l’umidità del 60 per cento. A quell’ora il vecchio re
Vittorio Emanuele III si svegliava ogni mattina per alzarsi alle 6, con
un’abitudine militare che sorprese lo Zar di tutte le Russie durante il
soggiorno a Racconigi nella visita di Stato, tanto da comunicare il suo stupore
in una lettera alla zarina madre: «Qui vanno tutti a dormire alle 23, perché il
re si alza prestissimo». Ma ormai il Re era diventato il conte di Pollenzo, in
esilio in Egitto dopo l’abdicazione, e l’ultima fotografia lo riprendeva in
canoa con l’ex regina Elena, un casco coloniale in testa e un binocolo al
collo, come un turista sfaccendato e lontano. Il nuovo sovrano Umberto II,
devoto alla Chiesa a differenza del padre, cominciò la sua giornata con la
Santa Messa, inginocchiato non nella cappella Paolina, dove erano state
celebrate le sue nozze con Maria José, ma davanti all’altare dell’Annunziata
nel palazzo del Quirinale, vicino al suo appartamento privato. Quando il
celebrante invocò la benedizione di rito su Casa Savoia tutti chinarono il capo
facendo il segno della croce: ma nessuno affidò pubblicamente all’Altissimo la
cura di quel giorno speciale, in cui l’Italia era chiamata a scegliere il suo
destino tra la repubblica e la monarchia.
La vigilia del referendum è attraversata da voci incontrollabili che
parlano di intrighi monarchici, di manovre delle sinistre. La psicosi dura da
giorni, annunciata dal macabro mistero della salma di Mussolini trafugata la
notte del 22 aprile al cimitero monumentale di Milano. Una settimana prima del
voto un rapporto «strettamente confidenziale » dell’Oss, il servizio segreto
americano, «fonte Jk1», parla in modo esplicito di «colpo di Stato» comunista
agli ordini di Longo, Moscatelli, Barontini e Grieco per prendere il potere
arrestando «membri della famiglia reale, gli ex gerarchi fascisti, i principali
proprietari terrieri e i capi delle industrie». I leader dei partiti di
sinistra, invece, guardano al Quirinale, temendo un colpo di mano
dell’entourage reale, dopo le sorprese delle ultime settimane. Violando la
tregua istituzionale che secondo le intese doveva garantire il più corretto
svolgimento del referendum, infatti, il 9 maggio Vittorio Emanuele III era
uscito dal silenzio di Villa Maria Pia a Posillipo per abdicare in favore del
figlio, che per gelosia e per diffidenza non aveva mai voluto preparare al
mestiere di re. Una scelta che Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia nel
governo De Gasperi, giudicò «l’ultima fellonia di una casa regnante di
fedifraghi», decisa per risollevare le sorti della monarchia in declino dopo la
connivenza del sovrano con il fascismo, le leggi razziali, la tragedia della guerra,
la vergognosa fuga a Brindisi: tentando in extremis di salvare la
dinastia minacciata dal voto popolare.
Il nuovo re, privato della formula rituale che assegnava la corona «per
grazia di Dio e volontà della nazione », giura «di osservare lealmente le leggi
fondamentali dello Stato e le libere determinazioni dell’imminente suffragio».
Ma intanto parte subito per mostrarsi alla folla in Piemonte, in Veneto, in
Sardegna, a Napoli, a Milano, in Sicilia, in Calabria, in un vero e proprio
circuito propagandistico tra santuari, tombe, palazzi, ricevimenti e saluti
militari che rivela il sostegno del Sud alla monarchia e la freddezza del Nord,
ma soprattutto mette in conflitto il doppio ruolo di Umberto II come Capo dello
Stato e parte in causa nella battaglia referendaria. Più defilata la regina
Maria Josè, che cerca di apparire in manifestazioni di beneficienza in scuole e
ospedali, per poi infilare la scheda bianca nell’urna del referendum e votare
socialista per la Costituente, secondo la confidenza compiaciuta di Giuseppe
Saragat, convinto che la preferenza della sovrana fosse andata proprio a lui.
Nei pettegolezzi del Quirinale si racconta che abbia votato scheda bianca
anche il re, fotografato mentre consegna scheda e matita al presidente del
seggio di via Lovanio, vicino a Villa Savoia, che gli aveva fatto saltare la
coda. Come se avesse passato una notte agitata, il vicepresidente del Consiglio
Pietro Nenni si presenta al voto alle otto del mattino alla sezione 350 di Tor
di Quinto, poi si chiude in casa per tutto il giorno, leggendo Le zéro et
l’infini di Koestler. Il giorno prima, aveva chiesto a De Gasperi
quale sarebbe stata la sua scelta nell’urna, senza avere risposta («Il voto è
segreto»), anche se più tardi la figlia Maria Romana rivelerà che il Capo del
governo aveva votato per la Repubblica. L’ingegner Giuseppe Romita, ministro
socialista dell’Interno, si barrica invece al Viminale per tre settimane, teme
che vogliano rapirlo, isola il suo ufficio sbarrando corridoi e chiudendo
saloni, si fa portare le camicie dalla moglie, pranza e cena in ufficio col
comandante dei carabinieri Brunetti e con il Capo della polizia Ferrari, che a
tavola gli confessano la loro fede monarchica.
In un Paese fortemente cristiano, con sei milioni di iscritti all’Azione
cattolica, la Chiesa ufficialmente sceglie l’astensione, anche se nei paesi del
Sud il clero sostiene la monarchia, agitando gli spettri del caos per paura dei
comunisti. Le sacre indiscrezioni che filtrano dal Vaticano parlano di un Papa
vicino ad Umberto, con un pro-segretario di Stato come Montini più aperto verso
la Repubblica. In questi spifferi si infilano naturalmente i servizi, che
in un rapporto classificato come «segreto » certificano che «Pio XII ha
espresso la sua aperta simpatia per i Savoia, dichiarando che appoggerà il
mantenimento della monarchia in Italia». Ma nei corridoi del governo Mario
Scelba, ministro delle Poste, racconta a tutti i democristiani (e anche a
Togliatti) che il fondatore del partito Popolare don Luigi Sturzo gli ha confidato
in una lettera «Io sono per la repubblica». C’è anche un sondaggio, organizzato
per la prima volta dalla "Doxa". Ma nei palazzi del potere gira
ancora la profezia di Vittorio Emanuele III, come una maledizione: «Una forma
di governo repubblicana non è adatta al popolo italiano, né per temperamento né
storicamente. In una Repubblica ogni italiano insisterebbe per diventare
presidente e il risultato sarebbe il caos. Gli unici che ne trarrebbero
vantaggio sarebbero i comunisti». Anche se da un rapporto del Foreign Office
arriva un giudizio controcorrente: «Un po’ di Repubblica e un po’ di comunismo
farebbero molto bene agli italiani».
Si arriva così al giorno del referendum, con una decisiva innovazione
democratica, appena sperimentata nelle elezioni amministrative di marzo: il
voto delle donne, che conquistano il suffragio compiendo una battaglia
cominciata a metà dell’Ottocento. La risposta popolare nelle urne conferma la
piena coscienza di questo diritto, con le donne che votano all’89 per cento, in
un’affluenza complessiva altissima, 89,1. Il primo scrutinio è per l’urna della
Costituente, dove la Dc è primo partito con il 35 per cento dei voti mentre i
due partiti di sinistra col Patto d’unità d’azione arrivano al 39,6, con i
socialisti che superano il Pci, il Partito d’Azione che crolla all’1,45, e
l’Uomo Qualunque sale al 5,3 per cento. Poi comincia lo spoglio del voto
referendario, sotto il presagio malinconico ma esatto di Umberto II, confidato
nelle ultime ore al ministro della Real Casa, Falcone Lucifero: «La Repubblica
si può reggere col 51 per cento dei voti, la monarchia no». In realtà dai primi
dati balza in testa la scelta monarchica, perché le zone scrutinate sono quelle
del Sud, e nell’ansia si gonfia la leggenda che Romita abbia nel suo cassetto
un milione di voti prefabbricati e pronti. È una sciocchezza tecnicamente
impossibile, ma basta a infiammare l’attesa fino al 5 giugno, quando alle tre
del mattino una telefonata dal Viminale avverte Nenni che il Nord ha ribaltato
gli esiti, la corona è sconfitta, l’Italia ha scelto la Repubblica.
È ancora notte quando Lucifero informa il re, in un incontro a due,
commossi davanti alla sconfitta. A metà mattina De Gasperi al Quirinale
concorda le procedure per la partenza del sovrano verso l’esilio, e gli
comunica che lo accompagnerà a Ciampino. Il re risponde che ha deciso di far
partire la regina e i figli per Napoli, dove l’incrociatore "Duca degli
Abruzzi" li attende per portarli in Portogallo.
Tutto è definito: nel pomeriggio Romita legge i risultati, con 12.182.000
voti per la Repubblica, 10.362.000 per la monarchia.
La sera Umberto riunisce la "Corte Nobile" a tavola, per l’ultima
cena al Quirinale. Ma venerdì 7, mentre Umberto in visita ormai privata si congeda
da Pio XII che saluta i suoi «giorni amarissimi», i monarchici sollevano
un’eccezione sui risultati, sostenendo che la legge prevede la maggioranza dei
votanti e non solo dei voti validi. Tutto torna in alto mare, la Cassazione non
proclama l’esito del referendum, in attesa di esaminare «contestazioni,
proteste e reclami », e i fedelissimi convincono Umberto a non partire fino
alla pronuncia definitiva. Sono sei giorni di passione, con il Consiglio dei
ministri che siede in permanenza, anche fino alle 3 di notte, e De Gasperi che
va e viene dal palazzo del governo al Quirinale, dove ha uno scontro con
Falcone Lucifero, alzando la voce: «A questo punto, domattina verrà lei a
trovare me a Regina Coeli, o verrò io a trovare lei».
La crisi sembra precipitare quando i bassi di Napoli insorgono contro la
Repubblica inneggiando a Masaniello, con morti, tram rovesciati, barricate, e
un vero e proprio assalto alla sede del partito comunista. Nel vuoto
istituzionale il governo fa la mossa finale decidendo che nel regime
transitorio «le funzioni di Capo dello Stato spettano al Presidente del
Consiglio in carica ». Il re ha dormito fuori palazzo, in via Verona, a casa
dell’ingegner Lignana. Qui con Lucifero esamina la possibilità di
un’ultima prova di forza, poi nel timore della guerra civile desiste. Partirà,
per evitare scontri e conflitti, ma contestando la legittimità del passaggio di
poteri. Saluta i collaboratori, passa in rassegna i corazzieri, cammina per
l’ultima volta nei giardini, poi un corteo di cinque auto lo accompagna a
Ciampino dove rifiuta di incontrare i due ministri che lo attendono sulla
pista. Dietro le spalle si è lasciato l’ultimo proclama che denuncia «il gesto
rivoluzionario, unilaterale e arbitrario del governo» e annuncia il «sacrificio
» compiuto «nel supremo interesse della patria». «Un periodo che non fu senza
dignità — replica De Gasperi — si conclude con una pagina indegna». In cima
alla scaletta, prima di entrare nel Savoia Marchetti 95 l’ex re, ormai conte di
Sarre, si volta sorridendo nel commiato, col cappello floscio nella mano
destra.
In quel momento dalla torre del Quirinale scende il tricolore con lo stemma
dei Savoia. Calma assoluta in tutto il Paese, scrive nel suo diario Nenni. «Ci
sarebbe da arguirne che si può perfettamente fare a meno del re e del Capo
dello Stato. Però l’Italia è un ben curioso Paese».
La Repubblica, 2 giugno 2021
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