Teresa Vergalli nel 1946
di SIMONETTA FIORI
Teresa Vergalli, 93 anni, "combattente"
della Brigata Garibaldi ricorda quel 2 giugno del ’46: "La Repubblica era
un sogno femminile"
«Le donne avevano paura di sbagliare, di stropicciare la scheda, di
rovinarne la piega nel gesto di chiuderla. Perché avevano mani forti da
contadine, mani callose abituate alla vanga e alla zappa più che ai manufatti
di carta. E molte erano analfabete, non distinguevano un simbolo dall’altro. Le
più vecchie non si fidavano degli occhi stanchi, le lenti erano un lusso
riservato ai ricchi. E io dicevo loro: andate tranquille, e siate libere di
scegliere. La scelta questa volta è solo vostra». Teresa Vergalli è cresciuta nella campagna reggiana, figlia di due mezzadri
di Bibbiano. Il 2 giugno del 1946 non poté esercitare il diritto di voto perché
non ancora maggiorenne, ma era una delle partigiane che avevano preparato al
voto le donne, le mondine chiuse nelle cascine e le giovani operaie già protese
verso la modernità.
«Vuoi che ti racconti del 2 giugno 1946? No, di questo non ho mai parlato.
Vieni a trovarmi domani, ma non ti aspettare una casa di lusso. Ti racconterò
anche della mia amica Mimma, del suo seno flagellato e di molto altro». Le
storie di Annuska - il suo nome di battaglia - riempiono di luce il piccolo
appartamento romano di Cinecittà. Parlano di storie eccezionali narrate con il
timbro dell’ordinarietà. E alla fine viene da chiedersi se davvero siamo stati
all’altezza di quelle donne così "normali" che costruirono la
democrazia.
«Aspettavo quella giornata da anni. Da quando avevo cominciato a fare le
riunioni tra partigiane sul lavoro femminile. Noi dovevamo difenderci dalle
bombe e dalla fame, ma anche pensare al futuro in democrazia. E nella nostra
concezione di democrazia erano inclusi i diritti delle donne, allora calpestati
sia in campagna che in fabbrica. Nei contratti di mezzadria le donne non
venivano calcolate come forza lavoro: eppure erano quelle che si svegliavano
all’alba per mungere le vacche, e poi badavano ai figli e alla casa. "Noi
chine sulle bisce e sul fango – protestavano le mondine – e i maschi in piedi a
comandare". Nelle Officine Reggiane, allo stesso bancone di lavoro, un
ragazzetto di 16 anni prendeva un salario più alto dell’operaia adulta. E
allora per la prima volta parlavo dei diritti sindacali. E le donne sorridevano
guardandosi l’un l’altra, perché venivamo da un’epoca in cui il
sindacato fascista era il luogo delle più orrende disparità: si andava
avanti non secondo principi saldi, ma per fedeltà alla dittatura. E nei nostri
incontri tutto si teneva insieme: la guerra partigiana, il sogno della
Repubblica e la questione femminile.
«Il giorno del voto c’era una straordinaria eccitazione. In realtà non era
la prima volta, perché le donne avevano già votato alle elezioni amministrative
di marzo: a Bibbiano era stata eletta consigliera comunale la zia Dirce, la zia
sarta che cuciva le gonnelline a fiori e il corpetto di velluto. Dopo ore di
fila davanti al seggio, la mamma tornò a casa sfinita: eh, l’avevate fatta così
difficile. Nei corsi preparatori al voto bisognava spiegare bene come
comportarsi dentro l’urna. Le ragazze sembravano spaventate. Si preoccupavano
anche delle madri e delle nonne analfabete. Noi consegnavamo loro il facsimile
della scheda per fare le prove a casa. Per il 2 giugno le neoelettrici
indossarono il vestito più bello. E le contadine solitamente a piedi nudi
calzarono le scarpe della festa. Il Corriere della Sera aveva
raccomandato che non ci si tingesse le labbra con il rossetto, nel timore di
qualche baffo rosso sulla scheda. Ma la mamma e la zia non lo usavano, il
massimo del belletto era un po’ di cipria sulle guance.
«La scelta del voto fu spontanea. La croce sulla Repubblica era quasi
naturale. Le contadine non perdonavano alla regina di essere stata la prima
sposa a consegnare la fede alla patria del fascismo. Certo, a lei non era
costato nulla, di anelli ne aveva quanti ne voleva, mentre le nostre donne
restavano con quel cerchietto di metallo che macchiava le mani di scuro. E
quell’ombra le mortificava, come lo stigma quotidiano dell’ingiustizia.
«Nel gran giorno elettorale gli uomini ci guardavano con scetticismo. Ho
sentito qualche comandante partigiano rassicurare i suoi compagni: tranquilli,
mia moglie fa come dico io. Oppure temevano l’influenza della Chiesa:
accidenti, mia madre dà retta ai preti. La preoccupazione era quella già
espressa anche da illuminati parlamentari contrari al suffragio femminile: le
donne sono per natura suggestionabili, creature emotive mai capaci di scelte
razionali. Noi alle riunioni dicevamo: decidete da sole, non lasciatevi
condizionare. "Zitta tu che sei una donna. Che ne puoi sapere?".
A casa mia non l’ho mai sentito, ma alle riunioni le ragazze ci riferivano queste
invettive. Nella cucina dei miei nonni contadini si mangiava tutti insieme, ma
altrove gli uomini pranzavano seduti a tavola per conto loro, e le donne
aspettavano vicino al camino, con la scodella in mano. Il voto femminile
irruppe in questo mondo arcaico e fu una vera rivoluzione culturale.
«Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza: come avrebbero fatto i
partigiani a comunicare tra loro? Eppure nel dopoguerra molte partigiane
rimasero nell’ombra. Avevamo mostrato ancora più coraggio dei maschi perché noi
combattevamo senz’armi. La pistola era sostituita dall’arguzia,
dall’intelligenza, dalla parola svelta con cui superavamo gli sbarramenti
nazifascisti. Io non avevo paura di morire, ma di essere torturata sì. Le donne
venivano picchiate in modo selvaggio, anche violentate. Alla mia amica
Mimma i tedeschi mutilarono il seno, lei non ne avrebbe parlato neppure con il
suo medico, cinquant’anni dopo. "Son cose che non si possono dire",
mi bisbigliò una volta all’orecchio. Se Mimma avesse ceduto alle torture dei
nazisti, io non sarei qui a raccontare. Di recente le hanno dato una medaglia
d’oro alla memoria.
«Una volta fui messa in difficoltà da un ragazzo con cui avevo attraversato
il fiume nella notte, in attesa che le nuvole oscurassero la luna troppo
accesa. Ci ospitò nella sua casa in collina, dove crollai sfinita sul divano.
L’indomani al risveglio fece per abbracciarmi alle spalle, un tentativo goffo
interrotto dalle mie urla. "Come ti permetti?". "Ma voi
comunisti non eravate per il libero amore?". Era un partigiano cattolico
che temeva gli portassimo via la casa e la motocicletta. Lui invece si voleva portare
via me. Anche io ho fatto fatica a raccontare questa storia.
«In quei giorni di tarda primavera aspettammo con il cuore in gola l’esito
del referendum, che arrivò solo con i giornali dell’11 giugno. In realtà la
Repubblica democratica avevo cominciato a sognarla quando mio padre fu messo in
galera per volantinaggio antifascista. Quali sono i miei sentimenti se mi
guardo indietro? Ho vissuto una vita normale, fatta di scelte normali. Nel
dopoguerra ho militato nel movimento delle donne del Pci, poi ho insegnato a
lungo nelle scuole. Mi dispiace solo quando qualcuno tenta di sminuirei i
valori del nostro grande sogno partigiano. E allora penso alle mie amiche di
allora, alla forza della Mimma e al sorriso della Laila, e mi torna il
buonumore».
La Repubblica, 2 giugno 2021
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