Giuseppe Valarioti
Un omicidio impunito. Le indagini, portate avanti dalla Procura della Repubblica di Palmi, puntarono inizialmente alla “questione di donne”, trascurando incredibilmente i fatti che avevano preceduto il delitto: l’attentato alla sezione del Pci, i manifesti capovolti e l’incendio dell’auto di Peppino Lavorato (storica roccia della sinistra calabrese) durante la campagna elettorale appena conclusasi con il successo dei comunisti divenuti il primo partito a Rosarno
Quarantuno anni fa, era il 10 giugno 1980, veniva assassinato a Rosarno il segretario della locale sezione del Pci, un giovane intellettuale appena trentenne. A quell’omicidio, seguito a distanza di pochi giorni da quello di un altro comunista calabrese, Giannino Losardo, farà seguito un lungo periodo di impaurito silenzio della società civile e della politica calabrese. Ancora una volta le speranze di rinnovamento dell’estrema periferia italiana erano state soffocate nel sangue. La ‘ndrangheta aveva raggiunto il suo obiettivo.
Le indagini, portate avanti dalla Procura della Repubblica di Palmi, puntarono inizialmente alla “questione di donne”, trascurando incredibilmente i fatti che avevano preceduto il delitto: l’attentato alla sezione del Pci, i manifesti capovolti e l’incendio dell’auto di Peppino Lavorato (storica roccia della sinistra calabrese) durante la campagna elettorale appena conclusasi con il successo dei comunisti divenuti il primo partito a Rosarno. Ci vollero mesi perché gli inquirenti imboccassero la strada giusta. Il movente del delitto era da ricercarsi nell’aspra battaglia che Valarioti aveva ingaggiato contro la ‘ndrangheta, senza timore e senza reticenze, facendo i nomi di chi, anche all’interno dei pubblici poteri, usava ogni mezzo per condizionare la vita economica nella Piana di Gioia Tauro.
Non era esente da infiltrazioni mafiose neppure la Cooperativa Rinascita, nata per associare i produttori di agrumi della zona. Vennero arrestati alcuni esponenti della cosca dei Pesce e alcuni iscritti alla sezione comunista di Rosarno. Il Pci, tuttavia, non esitò a costituirsi parte civile e inviò in Calabria Arrigo Boldrini, il mitico comandante Bülow, medaglia d’oro della Resistenza, a significare che la lotta alla ‘ndrangheta si poteva vincere così come era stata vinta quella contro il fascismo. A processo finì, come mandante dell’omicidio, anche il boss Giuseppe Pesce e venne a galla una drammatica verità.
Rinascita era stata tradita da alcuni suoi stessi dirigenti che avevano favorito l’infiltrazione mafiosa e consentito addirittura l’affidamento ai Pesce dell’appalto per il trasporto degli agrumi, la chiave di volta della truffa delle cosiddette “arance di carte”, la sistematica contraffazione dei documenti che accertavano i frutti inviati, per eccedenza di produzione, al macero. Valarioti, da poco segretario, aveva scoperto la truffa e vi si opponeva perché era in gioco il neonato movimento cooperativo, una vera e propria rivoluzione per la Calabria, con duemila associati finalmente liberi di trovare uno sbocco sul mercato e di ottenere onesti compensi.
Presunti mandanti ed esecutori materiali furono, però, assolti per mancanza di prove e nessun nuovo processo venne più intentato nonostante le successive rivelazioni di un pentito. 41 anni dopo l’assassinio di Valarioti resta ancora impunito ma, come ci ricorda il recente saggio di Rocco Lentini (L’utopia di un intellettuale, Città del Sole Edizioni, dicembre 2020) che di Peppe fu amico e compagno, il modo migliore per ricordarlo oggi è quello di non rinunciare alla ricerca della verità sulla sua morte per quanto scomoda questa possa essere.
Il Manifesto, 10 giugno 2021
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