NONUCCIO ANSELMO
Era illitterato Bernardo, anzi, come lo chiamavano prima di diventare frate, Filippo. Era un illitterato calzolaio del Seicento Filippo Latino; viveva in un paese del feudo che si chiamava Corleone.
Paese? Si sarebbero offesi i corleonesi del Seicento. Quella era una Animosa Civitas, come aveva certificato Carlo V. E in questa città, capoluogo di circoscrizione fin dal tempo degli arabi, si era trasferito mastro Nardo Latino. Era un conciapelli, veniva da Chiusa Sclafani. Si era sistemato al Biari, alla Savaretta, dove, come diceva il toponimo, c'era con il fiume che lambiva l'abitato, tutta l'acqua necessaria alla concia delle pelli.
Mastro Nardo aveva sposato una corleonese doc, Francesca Xaxa. Ne era nata una famiglia numerosa - a quanto pare avevano avuto dieci figli e Filippo sarebbe stato il quintogenito - ma soprattutto, come si dice, timorata di Dio. Era, dicevano a Corleone, una "casa di santi". Mastro Nardo non mancava mai di raccogliere i poveracci per strada e portarli a mangiare a casa; donna Francesca era una fervente terziaria; la fama di santi uomini avrebbe accompagnato il sacerdote Giuliano, Luca e Domenica. Anche Filippo era uno che non mancava di mettersi alla questua per dar da mangiare ai carcerati, per accendere ogni settimana la lampada ad olio davanti al veneratissimo Crocifisso di Sant'Andrea. In bottega, ogni sera, si recitava il rosario e, accanto al trincetto, stava appeso l'abitino dei terziari.
In verità, in bottega stava appeso anche un altro attrezzo che avrebbe portato Filippo al Bivio: la spada. Perché Filippo, oltre ad avere il cuore d'oro, d'oro aveva anche il braccio. Figurarsi che lo chiamavano la prima spada di Sicilia.
Filippo era nato - si presume dalla data del battesimo, che allora quasi sempre avveniva nello stesso giorno - il 6 febbraio 1605. Tredici anni dopo, il primo maggio 1618, nella città s'era insediata una guarnigione di fanteria spagnola, i Borgognoni. Avevano preso alloggio in un quartiere appositamente costruito nei pressi della piazza principale d'allora, l'attuale piazza Vasi, e ancora oggi, quell'area viene chiamata "Quartiere" e vi sbuca una strada ancora oggi chiamata "dei Borgognoni". Malgrado le spese che aveva dovuto affrontare la città per la realizzazione di quel quartiere e le conseguenti tasse, i maggiorenti dell'Animosa Civitas erano stati certamente lieti di quell'insediamento: veniva a certificare il ruolo di importante centro politico e militare. Certo, i corleonesi non sapevano ancora quel che avrebbero dovuto subire, che poi era quanto subivano tutti i centri che ospitavano guarnigioni spagnole. L'ha ben descritto Alessandro Manzoni ne "I promessi sposi", quando con ironia dice che quei mercenari "insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell'estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l'uve, e alleggerire a' contadini le fatiche della vendemmia." Manzoni, oltre a descrivere bene la situazione che si era venuta a creare a Corleone come a Lecco, aveva anche raccontato la particolare storia di un cappuccino, fra' Cristoforo, che pare modellata - anche se non c'è alcuna conferma storica - proprio sulla vita di Filippo Latino.
Il quale, con la curiosità propria dei ragazzini, con i suoi compagni aveva scoperto in questo modo le spade, le picche, i pugnali, le corazze. Era una festa vedere le parate militari, era uno spettacolo vedere i soldati allenarsi all'arma bianca. E poi, era diventato ancora più bello imparare a maneggiarla, la spada, in una delle sale da scherma che, grazie alla numerosa clientela, erano state aperte in città. Erano stati in tanti i ragazzini che, lasciati i giochi di sempre, avevano cominciato a tirare di scherma, però poi molti s'erano persi per strada. Filippo no. Aveva continuato e, non si sa come, era diventato il migliore.
Forse, alla base di tutto, c'era la sua grande forza di volontà. Perché era convinto che con quell'aggeggio in mano, avrebbe meglio potuto difendere i poveri e gli inermi dalle soperchierie. Lo scoprirono gli stessi Borgognoni a loro spese. Si trovavano quel tipo davanti quando importunavano le ragazze, derubavano i mietitori, assaltavano i contadini per portar via loro i frutti della campagna.
Ma che quel titolo di prima spada di Sicilia stesse appuntato sulla giubba di un calzolaio analfabeta di provincia, non stava bene. Anzi, stava proprio sullo stomaco a molti. A tutti quelli che usavano la spada per mestiere e a tutti quelli che in città misuravano con queste capacità la nobiltà del lignaggio. Erano venuti in tanti a Corleone per sfidare il ciabattino e tutti se n'erano tornati a casa con la coda tra le gambe quando non con le ossa rotte. L'ultimo era stato il conte Bevaceto (secondo lo storico don Giovanni Colletto; Vinuiacitu secondo altri autori) che era tornato a casa con un paio di dita in meno: Per rifarsi aveva mandato un killer a compiere l'opera in altro modo, ma anche al sicario era andata male.
Buon ultimo, nell'estate del 1626, quando Filippo aveva raggiunto i ventun'anni, era arrivato Vito Canino, che tutti gli autori ricordano come commissario, ma di cui nessuno sa specificare di che. Forse commissario governativo, una specie di messo inviato per gli atti da notificare, fu dopo il duello; il modesto posto glielo avrebbe trovato proprio Filippo, ormai, Bernardo, divorato dal rimorso.
Qualche autore sostiene che fosse un altro killer del conte, ma non ci sono certezze. Canino era arrivato fino alla bottega di Filippo, in piazza, per sfidarlo. Come sempre, e come hanno raccontato molti testimoni al processo di beatificazione, anche stavolta Filippo aveva fatto di tutto per non accettare il duello. Ma come sempre - gli avversari lo sapevano, bastava saperlo provocare - la sua caldizza di testa aveva avuto il sopravvento.
Lo scontro era iniziato in piazza, ma era stato interrotto dall'arrivo della polizia. Era ripreso poco dopo, nello spiazzo della periferia accanto alla chiesa madre. Aveva avuto fasi alterne e Filippo aveva scoperto che il suo avversario indossava il giaco quando la sua lama, diretta al petto, era stata fermata dalla maglia di ferro, che era indice di viltà portare in un faccia a faccia. Ma a Filippo non mancava la capacità di aver ragione anche di un avversario corazzato. Infatti, con la sua botta curva ad un certo punto aveva colpito il braccio di Canino, che sarebbe rimasto inabile per tutta la vita.
Vito Canino colpito e atterrato, salvo per miracolo e comunque per sempre inabile, era stato, per Filippo, il Bivio davanti al quale si era trovato in quell'estate del 1626. Ora erano in tutta evidenza presenti le due uniche strade disponibili. La prima, quella che tutti, in famiglia, da tempo gli rimproveravano, era di perseverare con la spada; di uccidere o essere assassinato nella dannazione eterna. La seconda era quella indicata da tutti i santi uomini della sua casa, verso cui Filippo stesso, con la pietà e la purezza della sua vita - caldizza di testa a parte - era portato.
Forse fu in quello stesso istante che il disegno di santità si compì, tre secoli e mezzo prima dell'umana certificazione. Perché da quel momento Filippo gettò via la spada e decise di intraprendere il suo cammino verso Dio senza cercare sconti e indulgenze, ritenendosi il peggiore degli uomini ed equiparando il suo corpo a quello di una bestia che aveva necessità solo della frusta per essere domato e messo a tacere a vantaggio dello spirito. C'era un posto solo dove, lasciato il mondo, pensava d'avere la possibilità di compiere quel cammino, un convento cappuccino.
I suoi guai, diciamo così, giudiziari, furono presto risolti. Sia perché, malgrado le severe leggi che li vietavano, i duelli erano pratica quotidiana; sia perché Filippo era stato provocato fin dentro casa; sia perché Vito Canino fu convinto a ritirare la querela. Ben più difficile fu imboccare la via della famiglia cappuccina, dalla quale era stato più volte respinto.
Finalmente era stato accolto e mandato alla casa dei novizi nel convento di Caltanissetta e il 13 dicembre 1631 aveva potuto prendere i voti. Era nato quell'uomo nuovo che di Filippo aveva perduto anche il nome. L'ex calzolaio ed ex superspadaccino, adesso si chiamava Bernardo da Corleone.
Fra' Bernardo per trentasei anni era stato un frate modello. Anzi, spesso, i superiori erano stati costretti a impartirgli l'ordine di attenuare le penitenze. Non mangiava, e Cristo era comparso a offrirgli un tozzo di pane intinto nel suo costato; non dormiva, e la notte, quando non doveva vedersela con Satana, la Madonna gli portava in visita il Bambino; non riposava mai, e passava il suo tempo libero e le ore da dedicare al sonno nella chiesa a pregare; era sempre pronto all'obbedienza, e un paio di volte che era riaffiorato il vecchio Filippo, non aveva esitato a bruciarsi le labbra con dei tizzoni ardenti; il cilicio e la frusta erano le armi per domare il suo corpo e la sua "pelle d'asino".
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Per quindici anni Bernardo aveva peregrinato per i conventi di mezza Sicilia e per un anno era stato anche in quello della sua città. Gli ultimi quindici anni, invece, li aveva trascorsi a Palermo, dove era diventato popolarissimo. Il suo incarico era di cuciniere, ma spesso andava a cercare il sostentamento per i suoi fratelli e molti aneddoti sono legati al suo peregrinare. Dicono che sapesse illuminare le menti, che sapesse toccare il cuore degli uomini. Alla porta del convento di Palermo, c'era spesso la fila di gente che voleva incontrarlo. Ma quando sentiva che chi lo cercava non aveva bisogno di lui, ma rischiava di sollecitare la sua vanità, andava a nascondersi e nessuno riusciva più a trovarlo. Lo chiamavano già santo e i suoi devoti non erano soltanto nel popolino. C'erano anche molti potenti e altolocati.
Il 7 gennaio 1667 ebbe chiaro che la morte, a lungo corteggiata per "andare a godere Iddio", stava per arrivare. L'aveva colpito la polmonite, la febbre era forte, il corpo debilitato dalle inumane penitenze aveva poche capacità di difesa. Era stato trasferito nell'infermeria dei frati, in città. Era morto dopo cinque giorni di agonia, alle 15,30 del 12 gennaio.
La notizia si sparse immediatamente in città. L'infermeria dei frati fu presa d'assalto da una marea di gente che voleva dare l'estremo saluto al frate e accompagnarlo nel trasporto verso il convento fuori le mura. Ma fu necessario l'arrivo degli alabardieri per ristabilire l'ordine pubblico e fu necessario cambiare a fra' Bernardo nove volte il saio per distribuire a tutti un pezzetto di stoffa del suo abito.
La fama di santità dell'ex spadaccino rimase inalterata nel tempo. Qualche anno dopo la morte, nel 1675, iniziò l'iter per la glorificazione del frate di Corleone. Si bruciarono le tappe e furono accertati due miracoli. Ma poi, inspiegabilmente, tutto si fermò, fino a quando, il 15 maggio 1768, nella basilica vaticana addobbata a festa, papa Clemente XIII lo acclamò beato.
Fra' Bernardo avrebbe potuto essere canonizzato nel giro di pochi anni. Perché meno di sei mesi dopo la beatificazione, a Sestri Levante si verificò un miracolo a lui attribuito. Il 3 novembre, Agostino Podestà, un giovane di 19 anni, era stato accoltellato al petto e i medici avevano dichiarato che la loro scienza non serviva più a nulla. Una reliquia del frate appena beatificato, fece il miracolo.
La diocesi - oggi soppressa - di Brugnato, il 21 gennaio 1774 avviò il processo super asserto miraculo. Ma poi accadde l'imprevedibile. Una serie di eventi, tra cui la Rivoluzione francese, fecero calare il silenzio su quel miracolo accertato. Soltanto nel 1998, quei documenti sono venuti casualmente alla luce ed hanno rimesso in moto l'iter per la canonizzazione, che si è concluso il 13 marzo 2001 quando, nel corso del concistoro ordinario, papa Giovanni Paolo II ha deciso che il 10 giugno fra' Bernardo da Corleone sarebbe stato iscritto nell'Albo dei Santi.
Da anni Bernardo risiede in quella che fu la sua casa trasformata in chiesa, al Biari. La sua statua non ha particolari valenze artistiche ed è abbastanza moderna, fu acquistata dopo la sistemazione della chiesetta (1803). Un’altra statua di San Bernardo in ginocchio si trova adesso in matrice, sull’altare dell’Addolorata e del Crocifisso. E’ stata per moltissimi anni al Santissimo Salvatore, da dove è stata portata via per i lavori di restauro. Si dice che facesse parte con il suo adorato Crocifisso, di un gruppo nella chiesa di Sant’Andrea e dopo la chiusura di questa sarebbe avvenuto il divorzio. Ma Corleone gode di avere spesso il vero corpo di Bernardo conservato dai frati cappuccini a Palermo.
La statua di Bernardo, nella famosissima processione del Sacramento, andava al secondo posto: era ancora soltanto una “matricola”, un beato, e quindi doveva abbozzare. Lo precedeva solo l’Angelo custode che – essendo angelo – doveva abbozzare anche lui e più di lui.
Dal blog il cuore e il leone di n. Anselmo
http://nonuccioanselmo.wixsite.com/ilcuoreeilleone
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