LEANDRO SALVIA
PIANA DEGLIA ALBANESI. “Dopo la strage, tanti giovani di Piana, San Giuseppe Jato e San Cipirello ci riunimmo per setacciare le montagne. Ricordo che i mafiosi del paese scapparono per paura”. Il 1 maggio del 1947 Antonino Leggio si trovava a Portella della Ginestra per festeggiare il 1° maggio insieme ad altri contadini e loro famiglie. Aveva 19 anni ed aveva già preso parte all’occupazione delle terre. Quel tragico giorno fu tra coloro i quali caricarono i cadaveri dei compagni e li portarono in paese. Da oltre 70 anni vive in provincia di Bologna. Ma non ha mai dimenticato quei momenti.
“Eravamo saliti a Portella ed eravamo contenti. Doveva arrivare Li Causi”. Erano le 10 e 30 e i primi spari vennero scambiati per mortaretti. “Applaudivamo – racconta Leggio -, ma poi ci accorgemmo che la gente cadeva. Tanti scapparono, ma io rimasi lì insieme ad altri per soccorrere le persone e caricare i morti su un camion”. Giunti a Piana furono accolti dalle grida e dalle lacrime di madri, mogli e parenti delle vittime. “In tanti mi chiedevano se su quel camion ci fossero i loro cari. E dopo ogni nome rispondevo no o, purtroppo, sì”.
Leggio ricorda che, dopo aver partecipato ai soccorsi, si unì ad altri giovani che avevano deciso di dare la caccia ad assassini e mandanti. “Quella strage fu una vigliaccata – racconta – e si seppe subito che erano stati Giuliano e i mafiosi di Piana, San Giuseppe Jato e San Cipirello”. Di qui la decisione dei contadini di stanarli. Fu una reazione emotiva e spontanea. Una “Resistenza” che fece paura alla mafia.
I PARTIGIANI PRONTI A STANARE I MAFIOSI
L’episodio è stato raccontato anche da altri testimoni e viene citato nel volume “La strage e i depistaggi” di Francesco Petrotta: “La rabbia contro i mafiosi stava per esplodere. A Piana tra le file del movimento contadino – ricorda lo studioso – c’era un folto gruppo di partigiani ben organizzati e pronto a tutto e che a caldo aveva deciso di assaltare i mafiosi che si trovavano a banchettare in contrada Ntramizzi”. A contenere la collera dei contadini fu però l’intervento dei dirigenti locali e di Francesco Renda della Federterra.
Nel frattempo i mafiosi, temendo un linciaggio, si erano già dati alla fuga. Qualcuno di loro, per paura, vomitò. Gli animi in paese rimasero però agitati fino all’alba del 2 maggio. Quando le forze dell’ordine eseguirono i primi 74 fermi a carico di altrettanti sospettati di avere avuto un ruolo nella strage. La vendetta era stata tra l’altro annunciata anche sulle colonne de “La Voce di Sicilia”, che prometteva “la caccia ai mafiosi nelle loro tane, se i colpevoli, che tutti conoscono, non saranno assicurati entro le ventiquattr’ore”. Gli arrestati alla fine furono 168. Ma nessuno di loro finì sotto processo a Viterbo.
TREDICI LE VITTIME CHE VENGONO RICORDATE
Il Primo maggio del ’47, sotto il fuoco della banda di Salvatore Giuliano al soldo della mafia, caddero undici morti e si contarono ventisette feriti. A perdere la vita furono Margherita Clesceri, Giorgio Cusenza, Giovanni Megna, Vito Allotta, Serafino Lascari, Francesco Vicari, Giovanni Grifò e Castrenze Intravaia. Fra le vittime anche due bambini: Vincenzina La Fata e Giuseppe Di Maggio. Da alcuni anni vengono ricordati anche Vita Dorangricchia, che morì nove mesi dopo, ed Emanuele Busellini, ucciso dalla banda in ritirata. L’azione terroristica di quella tragica mattina viene da più parti considerata la risposta delle classi agrarie alle lotte contadine per la terra. (LEAS)
LEANDRO SALVIA
Giornale di Sicilia, 1 maggio 2021
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