di SALVO VITALE
Sono ormai 43 anni da quel terribile 9 maggio. Ero appena tornato da Partinico per un consiglio di classe e, prima di andare a casa avevo deciso di fare un salto alla radio. C’erano Peppino, Vito, Guido,Giampiero ad ascoltare un’intervista fatta a Radio Terrasini Centrale: in un certo momento la registrazione era stata interrotta da un clic che cancellava la parola “mafia”, con grande incazzatura di Peppino. C’era anche Giovanni R. che da qualche tempo non si faceva vedere e sembrava volesse dire qualcosa. Peppino ci disse che doveva andare a Cinisi a salutare due sue zie venute dall’America e che ci saremmo rivisti alle nove per mettere a punto gli ultimi dettagli della campagna elettorale. Scendemmo assieme , salii in macchina con lui e scesi circa cento metri più sotto, dove abitavo. Dietro di lui vidi una grossa macchina nera e non saprei dire se stava a seguirlo. Più tardi si fecero le nove, le dieci e Peppino, di solito puntuale non si fece vivo. Cominciammo a preoccuparci e iniziammo a cercarlo dappertutto, dal bar di Cinisi, dove la proprietaria diceva di averlo visto e dove avrebbe ordinato un whisky 69, cosa strana, a casa sua, dove non era arrivato, alla spiaggia e poi, via via, tra le varie campagne tra stradelle e trazzere. Era passata buona parte della notte, quando andai a casa. Alle sette del mattino sentii suonare il campanello e non ebbi nemmeno bisogno di aprire per intuire tutto. C’erano Agostino, Vito, con la sua cinquecento scassata, Fanny sconvolta. Il tempo di aprire ed Agostino, gelido: -“Ammazzaru a Pippinu”. Il pugnale che entra tra le costole e arriva dritto al cuore. Non c’era tempo di sentire il dolore. “Alla radio, senza perder tempo”. Raccogliemmo quanto si poteva portar via, la carpetta con i notiziari, le cassette con “Onda Pazza”, alcune registrazioni di Radio “Onda Rossa”, qualche libro dal titolo pericoloso poi andammo sul posto del delitto. Era una stradina molto stretta, delimitata da due muretti in pietra rotta, una traversa della strada che costeggia il confine con l’area aeroportuale, recintata da un reticolato. Peppino, che guidava da cani e non aveva la patente, non avrebbe mai potuto entrare in quella stradina senza urtare con la macchina in qualche parte dei due muri. Un cordone protettivo di carabinieri ci impedì di andare avanti. Alcuni uomini stavano ricostruendo il binario, divelto per circa mezzo metro e ricoprendo una buca sotto la massicciata. Sui fili della luce, tirati tra un palo e l’altro, penzolavano brandelli di carne beccati da qualche gazza. Il maresciallo di Cinisi si avvicinò e ci disse di presentarci in caserma. Sconvolto arrivò Liborio, il necroforo comunale: -“Picciotti, chiddu chi vittiru l’occhi miei non vi lu pozzu cuntari. Era tuttu pizzuddicchia. Un pezzu di testa, tri ghirita, l’occhiali, i sannali. A na banna attruvai na coscia sana. ” (Ragazzi, quello che hanno visto i miei occhi non ve lo posso raccontare: era tutto pezzettini. Un pezzo di testa, tre dita, gli occhiali, i sandali. In un posto ho trovato una coscia intera). Gli chiesi: “Ti abbiamo visto abbassarti verso la macchina e raccogliere qualcosa” -“Erano tri chiavi sparse sul terreno. Poi u maresciallu mi disse: -“Bisogna trovare un’altra chiave, cerca lì. Pareva chi u sapeva. E circannu in mezzu a li pietri e vicino a una zabara truvai una chiave Yale. Truvai puru, vicinu a la stalla, un cuculuni,(ciottolo),lordu di sangu”. Inutile stare lì a guardare senza poter fare niente. Stavo rientrando a casa quando vidi una camionetta dei carabinieri fermarsi davanti a Radio Aut. Erano in due e armeggiavano con una chiave Yale intorno alla serratura. Mi avvicinai:- “Chi vi ha dato quella chiave?” -“Scusi, lei chi è” -“Sono un redattore della radio” -“La chiave è quella dell’Impastato”. Pensai subito che Peppino teneva questa chiave assieme ad altre senza alcun segno di riconoscimento: come potevano i carabinieri sapere che quella che avevano in mano era la chiave della radio? Salirono la scala, buttarono per aria le carte rimaste, andarono in terrazzo e scesero trionfanti con una matassa di filo grigio: -“E’ uguale a quello che pendeva dai fili della batteria della macchina”. Trovata la prova se ne andarono soddisfatti.A casa, sulla soglia c’era mia madre: -“U sintisti? L’amicu tuo satau nall’ariu mentri mitteva na bumma pi fari satari u primu trenu. Vuleva fari moriri a tanti cristiani chi si vo vuscanu u pani”.(Hai sentito? L’amico tuo è saltato per aria mentre metteva una bomba per fare saltare il primo treno. Voleva far morire tanta gente che va a guadagnarsi il pane).
E giù un altro colpo di pugnale: la notizia aveva fatto il giro dei due paesi, Cinisi e Terrasini, ed era quella a cui volevano far credere gli assassini : un attentato fallito. E non con un treno qualsiasi, ma con quello che portava i lavoratori e gli studenti a Palermo: si distruggeva così non solo la memoria, ma tutta l’attività politica di Peppino, che alla causa dei lavoratori e degli studenti aveva dedicato la vita e che adesso invece avrebbe voluto farli saltare in aria. Non importava se il treno sarebbe passato ore dopo l’esplosione. Nell’aria nazionale di indignazione e di antiterrorismo, noi, i compagni di Peppino, eravamo promossi tutti terroristi o complici di un terrorista e la notizia venne accettata con un respiro liberatorio: Impastato, un pazzo, un sovversivo, un vagabondo, uno che non voleva lavorare e che giocava a fare il rivoluzionario, uno che voleva cambiare il mondo e che offendeva persone rispettabili che nulla gli avevano fatto di male: un corpo estraneo, una presenza fastidiosa e non desiderata rispetto all’aria cheta e ipocrita della piccola borghesia di paese: bene che fosse saltato in aria con tutte le sue fantasie: la bomba era il comunismo stesso come ideologia che finiva col distruggere chi lo professava, la forza del male già a priori insita nei suoi contenuti la fine di un’esperienza non gradita e scomoda.
Nel frattempo quattro camionette si presentavano davanti alla casa di Peppino e i carabinieri, senza troppe cerimonie e senza alcuna delicatezza allontanavano con uno spintone la madre di Peppino che, frastornata, chiedeva di sapere cosa sta succedendo. Dopo un’accurata perquisizione, portavano via cinque sacchi di materiale, soprattutto libri. Perquisizioni nelle case di sei compagni, con il magro bottino di un coltello da cucina, sequestrato a Vito e, a casa di Giampiero, del numero di Panorama, quella settimana in edicola, con la stella delle Brigate Rosse in copertina. Perquisizione anche nella casa della zia di Peppino, dove egli dormiva e dove, un ausiliario di fresca assunzione, Carmelo Canale, in servizio alla caserma di Partinico, trovava, frugando in un cassetto, una lettera che dava all’indagine una svolta diversa e, per alcuni aspetti complementare con la pista dell’attentato: suicidio. Estenuanti interrogatori alla caserma di Cinisi. Giovanni Impastato sotto torchio per circa sei ore: volevano sapere se c’erano contrasti al nostro interno, chi frequentava Peppino. Il maggiore dei carabinieri di Palermo Subranni, sembrava ossessionato dall’idea di trovare una bella cellula terroristica in Sicilia, ovvero in una terra dove il terrorismo politico non è mai attecchito, perché il traffico delle armi e il controllo del territorio sono rigidamente sotto la tutela della mafia. All’ipotesi dell’attentato sembrava credere poco il capitano Emanuele Basile, della compagnia di Monreale, che entrò solo di passaggio nell’indagine e che, qualche anno dopo fu assassinato dalla mafia. Stesse domande a vari compagni, stesso tentativo di estorcere una risposta da cui evincere qualche simpatia per il terrorismo, stesso ossessionante principio di voler capire la dinamica dei rapporti del nostro gruppo e gli eventuali dissensi. Faro chiarì il mistero dei fili elettrici con la punta spellata, che fuoriuscivano dalla macchina: egli lavorava alla SIP e aveva usato un pezzo del cavo telefonico in dotazione, per collegare le trombe utilizzate per i comizi e per bandizzare, con l’amplificatore e collegare questo con la batteria della macchina di Peppino. A condurre le indagini era il giudice istruttore Domenico Signorino, che, dopo essere stato uno dei P.M. al maxiprocesso, si suicidò per presunti debiti di gioco, e per mai chiarite collusioni con ambienti mafiosi. Il pentito Mutolo ne descrisse minuziosamente la casa.
Più tardi andai a casa di Peppino, dove tanta gente entrava e usciva: alcune donne coetanee di Felicia le giravano attorno, ultimo residuo delle prefiche romane e lei era lì, in fondo alla stanza, vicina al lettino, seduta e immobile, quasi pietrificata nel suo dolore, quasi assente. Mi vide, mi abbracciò e scoppiò a piangere: -“ Non lo potrai più venire a cercare qui dentro. Peppino non c’è più”. E io:-“Carogne. Ma non la passeranno liscia”. Mi guardò e spaventata, ma con voce perentoria, mi sussurrò: -“Non fate sciocchezze, Salvo. Tu non li conosci. Quelli sono bestie.”
Più tardi ci ritrovammo nella sede del PCI di Cinisi. Sulle pareti qualche manifesto d’epoca, uno di Berlinguer, uno con il simbolo del partito. Molti dei presenti erano stati oggetto della satira spietata di Peppino, dopo l’ingresso del PCI nella giunta comunale di Cinisi; altri avevano lavorato con lui, distribuito con lui volantini e partecipato alle attività del circolo “Musica e Cultura”. Malgrado la tristezza provai a scrivere qualcosa da concordare: -“Il compagno Giuseppe Impastato è stato assassinato dalla mafia di Cinisi perché ne denunciava i loschi traffici e le sue collusioni con il mondo politico locale. Chiediamo a tutti gli uomini onesti della Sicilia di mobilitarsi e chiedere giustizia per questo infame delitto. Chiediamo alle forze dell’ordine di indagare su Gaetano Badalamenti e sulla sua cosca…. Abbiamo tutti l’impegno morale di reagire alla violenza che domina in questo schifo di paese… dove non si può parlare senza la paura di essere uccisi “. Mentre ci stringeva la commozione arrivò qualcuno con una valigetta e scambiò qualche parola con il segretario, che ci disse: -“Compagni, se, per favore, potete aspettarci fuori, dovremmo discutere qualche minuto tra di noi”. Uscimmo, aspettammo fuori per circa mezzora, udivamo urla provenire dall’interno, poi si aprì la porta e ne uscì uno con un pezzetto di carta in mano: -“Compagni, abbiamo concordato di scrivere, come sezione PCI, questo comunicato”:
“In relazione alla morte del giovane Giuseppe Impastato, esponente della lista di Democrazia Proletaria, il PCI esprime il suo cordoglio per questa tragedia che ha scosso l’intero paese. La vicenda presenta tuttora pezzi oscuri e inquietanti, che impongono indagini rigorose ed attente, senza tralasciare alcun indizio, a cominciare dagli episodi di intimidazione che si erano precedentemente manifestati nei confronti del giovane scomparso. Nessuna ipotesi può essere esclusa, nessuna tesi sembra poter essere sinora scartata dagli investigatori….”
Non aveva ancora finito che mi misi a urlare:-“Fammi capire, quando parli del giovane Giuseppe Impastato, stai parlando di Peppino? Peppino non è più compagno? E’ diventato “il giovane?” Giovanni mi seguì a ruota: -“Fammi capire, cosa vuol dire “Nessuna ipotesi può essere esclusa?” Forse che la mafia non c’entra ed è stato un attentato?” Vito tagliò corto: -“Va fa ‘nculo, andate a fare tutti in culo. Compagni del cazzo. Vigliacchi, buffoni”.
ecisi di fare un salto alla radio. Era tutto è per aria, dopo la perquisizione fatta in mattinata. C’era solo Guido seduto sulla vecchia poltrona su cui stava stravaccato Peppino. -“Che cazzo ci fai qua?” -“Rispondo alle telefonate. Ne sono arrivate tantissime”. Sulla bacheca, dove solitamente appendevamo il palinsesto e qualche comunicazione, era appuntato un biglietto con la sua calligrafia : “Peppino, ti ricordi quando mi hai aiutato a fare la trasmissione su Fausto e Iaio? Tu sapevi usare sempre le parole giuste per ricordare che il potere ha già fatto molti morti. Hai pure voluto ricordare l’anniversario di Pinelli, di Sacco e Vanzetti, hai sempre pensato a Francesco, a Walter, a Giorgiana, a Mauro e a tutti gli altri compagni morti di stato. Ora ti aspetto per pensare anche a te, perché non è vero che sei vivo, siamo noi che moriamo sempre più dopo le vostre morti”. Guardai la sua faccia distrutta. Provai ad accendere il trasmettitore, che si mise a gracchiare, non sapevo se funzionasse, ma misi sul piatto la mia abituale sigla, “Morti di Reggio Emilia”, alzai nel mixer il cursore del giradischi e aprii il microfono: -“Non lo ascolteremo più. Ma non preoccupatevi. Tano Badalamenti, “u padri nostru”, come lo chiamate voi, non corre nessun rischio. Non ha ucciso nessuno, sono tutte calunnie di quattro vagabondi e straccioni, può dormire tranquillo nel suo letto. Peppino è morto da solo, ha voluto morire come un fesso. E’ andato a mettere una bomba sui binari della ferrovia per Palermo: non si sa, forse si voleva suicidare, era stanco di vivere, forse voleva fare un attentato, far morire gente innocente, ma siccome di esplosivi non ne capiva niente, è saltato in aria. E se non si è ammazzato, si è voluto fare ammazzare. Colpa sua. Non si faceva gli affari suoi. Tranquilli, è saltato da solo. Non è rimasto neanche un pezzettino. I carabinieri stanno cercando il complice dell’attentatore, e i complici siamo noi, terroristi come lui. E’ stato usato tritolo. E dove si trova il tritolo? Ma nelle cave!!! E chi è proprietario di una cava a Cinisi? Ma don Peppino Percialino! Però anche lui può dormire tranquillo. Non ci sono prove. Peppino glielo ha rubato, il tritolo. E poi, ci sono tante altre cave qui vicino! Quindi spegnete questa radio e accendete la televisione, tutto è a posto. Questa volta i carabinieri, i mafiosi e i bravi cittadini la pensano tutti allo stesso modo. Domani arriveranno i suoi poveri resti e ci saranno i funerali, ma chi volete che ci vada? Nessuno vi romperà più le scatole a parlarvi di mafia, di politica, di fascisti, a parlar male di tanti altri santi cristiani che meritano rispetto…e soprattutto nessuno si permetterà più di sfottere quello sporco assassino di Tano Badalamenti, che tutti amate e rispettate…Più nessuno. E comunque, bando alle tristezze, assabenerica a tutti, ai longhi e ai curti, ai surdi ca un vonnu sentiri e all’orbi ca un vonnu viriri, ai nichi e ai granni, a chiddi cu a pelliccia e a chiddi senza mutanni…, un saluto a tutti stile “Onda Pazza”. (benediciamo tutti, i lunghi e i corti, i sordi che non vogliono sentire e i ciechi che non vogliono vedere. i piccoli e i grandi quelli con la pelliccia e quelli senza mutande). Chiusi con la canzone di Ombretta Colli, sigla di Onda Pazza, “Facciamo finta che tutto va ben.. e sfumai con il verso di Guido: - “Ciao, Peppino, siamo noi che moriamo dopo la tua morte”.
Con un gesto secco spensi l’interruttore e diedi un calcio al trasmettitore. Era arrivato intanto Gino un compagno di Partinico, che mi suggerì un’idea: in due minuti scrissi un testo e gli dissi: -“Troviamo chi ci stampa un manifesto, almeno questo dobbiamo farlo, informare la gente su come stanno le cose”. Partimmo subito. A Partinico, alla locale tipografia, dopo aver letto il testo, ci dissero che era troppo tardi e che non ce la facevano. Secondo me era una scusa. Andammo ad Alcamo e qui in due ore il manifesto venne stampato in duecento copie. Lo pagò Gino, perché io ero senza soldi. 20 mila lire. Tornammo alla radio, dove c’èra un gruppo di compagni, Srotolai il manifesto: “PEPPINO IMPASTATO E’ STATO ASSASSINATO. Il lungo passato di militante rivoluzionario è stato strumentalizzato dagli assassini e dalle “forze dell’ordine” per partorire l’assurda ipotesi di un attentato terroristico. Non è così. L’omicidio ha un nome chiaro: MAFIA. Mentre ci stringiamo attorno al corpo straziato di Peppino, formuliamo una sola promessa: continuare la battaglia contro i suoi assassini.” DEMOCRAZIA PROLETARIA.
Mi rivolsi a Vito: -“Prepara secchio, colla e scope. Stanotte tappezziamo il paese”. Passammo la notte ad affiggere il nostro triste necrologio. Quando arrivammo davanti alla casa di Badalamenti la tentazione fu troppo forte: ci guardammo con Vito, lui corse a spalmare la colla sullo sportello di metallo che chiude il contatore dell’acqua, io vi attaccai il manifesto. Erano quasi le tre quando andammo a dormire.
Il quadro è stato realizzato da Gaetano Porcasi.
Il testo integrale e originale di questo brano è pubblicato nel libro di Salvo Vitale “Cento passi ancora (Rubbettino 2014)
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