Il cav. Giuseppe Condorelli
di GIORGIO RUTA
Alle 8 del mattino il cavaliere Giuseppe Condorelli
è già nella pasticceria di famiglia, nel centro di Belpasso, dove è iniziata la
storia di una delle più grandi aziende siciliane, famosa per i suoi torroncini.
«Devo incontrare persone», dice quasi a giustificarsi, alla fine di una
settimana in cui i riflettori di giornali e tg gli sono stati puntati addosso.
«Mi hanno chiamato tutti, cronisti, politici, tantissimi clienti, persino
dall’estero. Ma io ho fatto una cosa che dovrebbe essere normale».
Ovvero, denunciare un tentativo di estorsione mafiosa e mandare in carcere
i responsabili.
Cavaliere, si aspettava tutto questo clamore?
«Sinceramente no. Ma è assurdo che nel 2021 ci ritroviamo ad affrontare
ancora la piaga del racket. È un problema atavico che va affrontato alla
radice».
Lei nel 2019 ricevette una bottiglia di alcol e un messaggio scritto a stampatello su un foglio: “Cercati un amico buono”. Qualcuno le aveva chiesto dei soldi prima?
«No, nella loro logica avrei dovuto informarmi e cercarli per “mettermi a
posto”. Invece sono andato dai carabinieri».
Se avesse davanti gli estorsori che gli direbbe?
«Capisco che nella vita si può anche sbagliare, ma gli direi che non è
questo il modo di vivere. La strada corretta è quella della dignità, dei
valori, del lavoro. Non c’è alternativa, devono cambiare».
Lei ha due figli adolescenti: ha parlato con loro di quanto accaduto?
«Sì, ne abbiamo parlato a casa con mia moglie. Mi auguro che quello che è
successo serva loro per capire ancora più nettamente cosa sia il bene e cosa il
male».
Spesso, però, tra il bene e il male c’è la paura.
«Sì, e io non nascondo di averne. Ma prenderemo le giuste misure di
sicurezza, senza rinunciare a vivere».
Aveva già subito episodi simili in passato?
«Sì, nel 1998. Ricevetti una chiamata in cui mi chiesero 100 milioni di lire minacciando di farmi saltare in aria. Pensai a uno scherzo. Ma richiamarono poco dopo e capii che non c’era niente da ridere. Parlai con mio padre e gli dissi che avrei denunciato. “Ti accompagno”, rispose, senza tentennamenti».
Suo padre Francesco Condorelli, il fondatore dell’azienda.
«Se n’è andato nel 2003 a 91 anni.
Lui perse il papà da piccolo, si ritrovò a tirare su la famiglia a 16 anni.
Prima fece il garzone, poi nel 1933 aprì il bar pasticceria Condorelli, in via
Vittorio Emanuele a Belpasso. Ho trovato un manoscritto in cui diceva: “Mi
svegliavo alle 5 pur di vendere cinque o sei caffè. Ne è valsa la pena”. Poi
arrivò la seconda guerra mondiale, lui partì, fu fatto prigioniero dagli
inglesi. Dopo una breve esperienza a Pola, tornò a Belpasso e continuò
l’avventura».
Fu suo padre a inventare il celebre torroncino, un dolce non certo
siciliano. Come gli venne in mente?
«Fu alla fine degli anni Sessanta. Era a cena da amici a Venaria Reale, in
provincia di Torino, quando a fine pasto, non avendo dolci, gli offrirono il
torrone. Tagliandolo con il coltello si divideva in parti disuguali. In quel
momento ebbe un lampo di genio: perché non farlo monodose e morbido?».
Così partì tutto.
«Tornò a Belpasso e si mise a produrli di due tipi: ricoperti di cioccolato
fondente e di cioccolato bianco. Nei primi anni Settanta iniziò a distribuirli
al Nord, fra lo stupore dei clienti che gli rinfacciavano che il torrone non è
certo siciliano. Mio padre gli lasciava i torroncini e li sfidava a provarli:
vinceva la scommessa. Ma tutto cambiò con Pippo Baudo».
Che c’entra Baudo?
«Erano amici. Nel 1983 conduceva “Domenica In”, programma da 6-7 milioni di
spettatori a puntata. Un giorno lo chiamò e lo invitò ad andare a Roma per
sponsorizzare la trasmissione. Mio padre era restio, non aveva grandi budget.
Baudo non mollò e mio padre si convinse a sponsorizzare nove puntate con 300
milioni di lire. Dopo la firma mio padre era imbarazzato, non sapeva come dirlo
a casa. Ma alla fine Pippo ebbe ragione: l’anno successivo il fatturato
raddoppiò.
Poi, nel 1987, l’azienda fece un nuovo salto in avanti, grazie anche a un
altro grande siciliano: Leo Gullotta».
“Cavalier Condorelli, è un vero piacere”. Uno spot entrato nella storia
della pubblicità.
«Quando l’agenzia di Milano cui ci eravamo affidati ci presentò la sceneggiatura della pubblicità, ci disse che sarebbe servito un attore siciliano, un caratterista. Pensammo a Leo. Tra lui e mio padre nacque subito un rapporto di simpatia: Gullotta è figlio di un pasticciere catanese, intendersi era facile».
Gullotta, più che un testimonial, è uno di famiglia per voi.
«Sì, quando mia madre era ancora in vita, Leo veniva spesso a mangiare da
noi. Lei gli preparava la caponata che lui ama. Leo è una persona genuina,
retta, che non si è mai piegata a compromessi».
Vi siete sentiti dopo la notizia dell’intimidazione?
«Sì, non era stupito del mio gesto».
Suo padre ha lasciato le redini a lei. Come ha vissuto questo suo destino
segnato all’interno dell’azienda? Lo ha sofferto o ne ha beneficiato?
«Per me è stata una scelta naturale. Mio padre mi ha coinvolto sin da piccolo. Tornavo dalla scuola, facevo i compiti a casa e poi andavo in azienda. Ho sempre respirato quest’aria».
Nel 2017 il presidente Sergio Mattarella l’ha nominata cavaliere del
lavoro. Non capita tutti i giorni.
«Ricordo ancora l’emozione nella Sala dei corazzieri. Ho pensato a mio
padre, avrei voluto condividere con lui questa gioia».
Qual è, secondo lei, lo stato dell’imprenditoria siciliana? Le cronache
degli ultimi anni, con il caso Montante, non ne restituiscono un’immagine
limpida.
«Penso che ci siano grandi eccellenze. E spesso sono aziende familiari che
riescono a superare i confini nazionali. Poi, certo, è innegabile che qualche
scivolone ci sia stato».
I dolci siciliani sono apprezzati in tutto il mondo. Come va il mercato?
«Il made in Sicily dolciario sta vivendo un momento di splendore. Fino agli anni Novanta ci portavamo addosso il solito pregiudizio legato all’Isola. Ma adesso il clima è cambiato: siamo considerati un’eccellenza».
Il Covid ha frenato pure voi?
«L’impatto iniziale è stato traumatico. Il lockdown è arrivato prima di
Pasqua, un momento cruciale per le vendite. Ma piano piano c’è stato una
ripresa. Il canale della grande distribuzione ci ha permesso di difenderci».
Ripensando all’intimidazione, ma non solo, si è mai chiesto se ne vale la
pena restare a fare impresa in Sicilia?
«Senza dubbio qui è più difficile. Abbiamo maggiori problemi logistici, burocratici, una mancanza di rapidità nell’interloquire con gli enti pubblici. Non le nascondo che nei due casi di racket mi sono posto la fatidica domanda: chi me lo fa fare? Ma poi vai avanti e pensi ai nuovi investimenti. L’ipotesi di smantellare tutto e andare fuori non mi è mai passata per la testa. Non sono io a dover cambiare».
La Repubblica Palermo, 9 maggio 2021
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