Il boss mafioso Totò Riina
di ENRICO BELLAVIA
L’isolamento del giudice e la protervia del Csm in
balia delle correnti gli negarono ogni riconoscimento Ma i suoi strumenti di
lotta al crimine sono studiati oggi in tutto il mondo
Nel mesto riproporsi degli anniversari, il
ricordo vacilla, la memoria cede il passo alla retorica e le distorsioni
alimentano la mistificazione. Giovanni Falcone era scomodo allora, come lo è
adesso. Santino buono da esporre in processione il 23 di maggio, a patto di
rimuoverne la cifra distintiva, quella ostinata navigazione controcorrente nel
mare dei pescecani complici del nemico. I suoi detrattori di un tempo
conquistano da alcuni lustri la ribalta celebrativa e lo evocano a sproposito.
I modesti epigoni del giudice che ha dato corpo e forma a quella che per
comodità chiamiamo la lotta alla mafia corrono a mettersi in posa per
ritagliarsi una lama di luce. L’isolamento del giudice, la protervia
di un Csm che, allora come oggi, è il concentrato delle nefandezze correntizie
delle toghe, gli negò ogni meritato riconoscimento. Che aveva guadagnato sul
campo mettendo a punto un metodo d’indagine fatto di riscontri certosini al
racconto dei pentiti. Inventandosi un trattamento per i collaboratori di
giustizia, escogitando un apparato investigativo interforze in tema di
criminalità, la Dia, e una centrale strategica di coordinamento delle
inchieste, la Dna. In una dimensione nazionale e sovranazionale di risposta
alla sfida criminale.
Strumenti che il mondo viene a studiare, mentre in Italia il declassamento
del contrasto alle mafie nella lista delle priorità sembra essere una costante,
indifferente agli avvicendamenti governativi.
Emarginato e umiliato, Falcone, già l’anno prima della morte, preferì
acquartierarsi nell’avamposto della direzione degli Affari penali del
ministero, per prepararsi a sferrare da lì il colpo decisivo a Cosa
nostra. Quest’ultima lo intuì prima e meglio della politica che accusò il
giudice di essersi riparato sotto il cappello dei partiti. La storia della
vendetta per l’esito del maxiprocesso appare ridimensionare il movente della
strage. Perché distoglie lo sguardo dal futuro e obbliga a una torsione
all’indietro.
L’esito del maxiprocesso in Cassazione, intanto, fu favorevole all’accusa
solo perché sottratto alla visione riduttiva e parcellizzata che aveva in
Corrado Carnevale l’interprete più ostinato. Espressione di una magistratura
accomodante, cavillosa, rassicurante. E fu solo uno dei successi che Falcone
ottenne dalla poltrona di via Arenula. Costituiva la premessa per un corpus
legislativo avanzato: la Dia soppiantava l’alto commissariato alla lotta
alla mafia, la succursale del Sisde, un carrozzone di molte prebende e nessun
risultato, e la Dna diventava un vero motore di inchieste capaci di cogliere i
nessi al di là dei limiti geografici delle competenze giurisdizionali. Insomma,
quel che Falcone avrebbe potuto fare ancora costituiva la vera minaccia, più di
quello che aveva già fatto. Fermarlo a ogni costo era una necessità. Ci avevano
provato nel 1989 all’Addaura, mobilitando picciotti e uomini degli apparati sui
quali c’è ancora tanto da sapere. Prima e dopo cucinarono il piatto della
delegittimazione con l’ingrediente del sospetto, dell’ingiuria, dello sfregio.
Falcone sceriffo, Falcone vanaglorioso, Falcone che si fa l’attentato da solo.
Che muove pentiti con licenza di uccidere. E poi lo spreco dell’aula bunker, la
follia di un processo con centinaia di imputati, le sirene e la Palermo
militarizzata.
Bastano le collezioni dei giornali per verificare di quale trasformismo
siano capaci i maestri del pensiero dominante.
Della sua fine nel cratere di Capaci sappiamo molto ma non tutto.
Trentasette mafiosi condannati e altri tre morti prima della sentenza. Sette
stragisti rei confessi. Eppure non sappiamo ancora chi dal di dentro soffiò
dritte essenziali per la preparazione dell’agguato, chi
sottrasse file decisivi dal suo computer. Non sappiamo quali uomini
intorno a lui abbiano lavorato per scavargli la fossa. Come e perché gli fosse
stato negato un dispositivo prudenziale per il trasferimento da e per
l’aeroporto che evitasse il percorso obbligato dell’autostrada, trappola sulla
quale gli attentatori almeno da un mese confidavano. Prevedibili gli
spostamenti dell’auto blindata, il tragitto e il rallentamento nella semicurva
teatro dell’esplosione. Con la luce e di notte, come operai, gli assassini
prepararono congegni ed esplosivo per giorni. Nessuno vide nulla, nessuno
previde alcunché.
L’unica variante imponderabile la introdusse proprio Falcone, mettendosi
alla guida dell’auto e non dietro. Solo per quello il 23 maggio è il giorno
della sua morte, della moglie Francesca Morvillo e dei tre uomini della polizia
che precedevano la sua auto: Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo.
Vittime non collaterali ma bersagli necessari al piano che doveva segnare il
punto di non ritorno nel confronto tra mafia e Stato, nello spazio indicibile
in cui gli interessi dell’una e dell’altro coincidevano. In Sicilia e non
altrove. Nella terra dove un uomo solo aveva osato sfidare la signoria del
potere con l’arma della giustizia.
La Repubblica Palermo, 23 maggio 2021
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