martedì, maggio 11, 2021

Dopo la beatificazione del "giudice ragazzino". Cosa resta di Livatino e Puglisi e del sogno di una terra senza mafia

Pino Puglisi e Rosario Livatino

di NINO FASULLO
La Sicilia e la Chiesa siciliana hanno ora due uomini, don Puglisi e il giudice Livatino, — sostenuti da Dio mentre i killer di Cosa nostra li massacravano — insieme ai quali è possibile riflettere sul significato della tragedia che li ha investiti. Non sembrano esserci dubbi sul fatto che i due beati possano rappresentare una forte spinta all’avvio di un rinnovato impegno antimafia della chiesa da tutti riconoscibile. Un impegno che potrà essere inserito nel dibattito del prossimo Sinodo voluto da Papa Francesco.
Rosario Livatino entrò in magistratura nel 1978, negli anni in cui per la Sicilia occidentale si annunciavano le reazioni violente dei mafiosi agli uomini delle istituzioni impegnati contro i loro crimini. Un anno dopo si sarebbe scatenato a Palermo l’inferno di Cosa nostra. Mentre Livatino lavorava da sostituto nella procura agrigentina con intelligente serietà e severità. Raccontano che a un parroco che, non certo per sé, gli chiedeva comprensione e forse qualche piccolo "sconto", avrebbe risposto: "Padre, quando lei confessa accetta raccomandazioni?".

Sapeva di rischiare: ma solo in favore degli altri, della vita altrui. Rischiava per un mondo senza mafia. "Belle parole, bei sogni", diceva del Vangelo don Mariano ne Il giorno della civetta (1961). Il giudice di Canicattì infatti sognava con tenacia. Sognava una Sicilia che sapesse ribellarsi al fatto di convivere con una "organizzazione a delinquere" che su molte cose faceva solo cattivo tempo. Sogno da bambini quello di Livatino? Può darsi. A patto che, senza ambiguità, si dica dappertutto che quello era, e continua a essere il sogno di Gesù di Nazaret: "bambino" più di tutti. È stato lui a dire: "Se non cambiate e non diventate come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli" (Mt 18,2-3). Nessuno può fare qualcosa per una società senza mafia se prima non la sogna.

C’è un paradosso nella testimonianza di Livatino: la rinuncia alla scorta. Sa perfettamente che avendo scelto magistratura, nelle condizioni date rischia tutto. Ma non fugge. Perché ha una coscienza e un senso di responsabilità nei confronti degli altri, della città, che non gli consentono di chiudere gli occhi e far finta di non capire. In più, è molto legato a Gesù di Nazaret, col quale insegue il sogno di un mondo in cui nessuno debba andare protetto da una scorta. Pensa che alla protezione di un uomo debba bastare la dignità di cui è titolare. Perciò non vuole sentirsi inutilmente un privilegiato. E sceglie la condizione comune: rinuncia significativamente alla scorta.

Quando si troverà, senza scampo, davanti ai quattro killer di Cosa nostra chiederà come un bimbo: "Che volete da me? Che vi ho fatto? Non sparate". Il sentimento di Livatino, il suo messaggio, è profondamente umano, morale: nessun uomo deve vivere sotto un potere che possa costringerlo a andare sotto scorta. Non rinuncia all’impossibile. Non c’è un pugno di uomini e di donne che dicano con Livatino No a una Sicilia, alle sue città nelle mani violente di Cosa nostra? Sarebbero un pugno di pazzi.

Per chi non lo sapesse: anche di Gesù di Nazaret — un laico — dicevano che era "fuori di testa" (cf Marco 3,21). Finì "pazzo" in croce per volontà degli uomini del Tempio. Non a caso il Vangelo è l’opera di un grande folle.

E c’è un terzo paradosso in Livatino: il bisogno di riconoscimento — secondo giustizia — della numerosa compagnia di giudici (ma non solo giudici) ammazzati da Cosa nostra per l’identico motivo col quale egli stesso è stato assassinato: la giustizia. La giustizia di Matteo 5,10: "Beati i perseguitati per causa di giustizia, di essi è il regno dei cieli". Precisa e spiega Dietrich Bonhoeffer: in Matteo 5,10 "non si parla della giustizia di Dio, e quindi non si parla della persecuzione a causa di Gesù Cristo, ma vengono detti beati i perseguitati per una causa giusta".

Un rigo questo di Matteo scopertamente evangelico. Rivolto a tutti coloro che compiono azioni giuste, buone, umane in favore degli altri, specie poveri, privi di diritti, sfruttati, emarginati.

Purtroppo Matteo 5,10 spesso viene frainteso, come Matteo 25,31-46. Lo comprese invece Giovanni Paolo II proprio a Agrigento, a proposito di Livatino, quando disse: "Martire di giustizia e indirettamente di fede". Resta che lo spazio del Vangelo è assai più ampio di quanto non si sia pensato in passato e non si continui a pensare in alcuni ambienti. Livatino fu forse assassinato a causa della sua fede? Dunque la giustizia è titolo perfetto "al regno dei cieli". Falcone Borsellino e tanti altri non sono stati certo uccisi a motivo del loro battesimo ma perché facevano giustizia per conto della città.

I morti siciliani manu mafiosa a causa della giustizia un piccolo riconoscimento dalla chiesa lo meritano. Sono battezzati. Figli amati di Dio. Sacerdoti, re e profeti. Eredi per grazia di tutti i beni enunciati da Gesù. Senza condizioni. Nonostante i loro eventuali personali peccati. E Livatino è un laico che ha "scoperto" il senso umano del Vangelo. Beato, dunque una garanzia. Una promessa.

"Beato" è makàrios, "felice". Uomo che sta bene col Signore e con gli uomini. Livatino "felice". Un auspicio per tutti.

La Repubblica Palermo, 11 maggio 2021

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