di Giuseppe Pignatone
Nei giorni scorsi la Corte costituzionale ha anticipato con un comunicato stampa i termini essenziali della decisione sulle norme che vietano la concessione della liberazione condizionata ai condannati all’ergastolo per reati di mafia che non abbiano collaborato con la giustizia. La Corte ha ritenuto questo regime normativo in contrasto sia con la Costituzione (articoli 3 e 27) sia con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (articolo 3), ma ha rinviato la declaratoria di illegittimità costituzionale al maggio 2022 perché, come spiega il comunicato, “l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. La sentenza della Corte pone molte e delicate questioni tecniche già oggetto dei primi commenti, ma che potranno essere approfondite solo quando saranno depositate le motivazioni.
Intanto, però, mi sembra importante rilevare come la decisione della
Consulta costituisca un segnale forte di contrasto a quella corrente di
opinione – molto presente nel dibattito pubblico – secondo cui le norme
adottate nel tempo per contrastare le mafie e prima ancora il terrorismo, anche
quando non addirittura incostituzionali, sarebbero comunque ormai
inaccettabili. Perché, secondo questo filone di pensiero, andrebbe finalmente
chiuso il periodo iniziato quasi mezzo secolo fa, caratterizzato da
provvedimenti emergenziali adottati, si sostiene, per placare una opinione
pubblica impaurita ed esasperata dall’incalzare di attentati, omicidi, stragi.
Sembra quasi che la mafia non sia più un problema reale del nostro Paese, ma
che resti soltanto una sorta di “fissazione”, invocata da chi vuole senza
motivo mantenere e rafforzare una legislazione e una giurisprudenza
giustizialiste e forcaiole.
Purtroppo non è così. Le cronache di ogni giorno confermano che le mafie
sono più che mai presenti e attive sia nel Sud (dove di fatto solo la Sicilia
registra un relativo indebolimento di Cosa nostra) sia nel Centro e nel Nord
del Paese.
Indagini, processi e molte sentenze ormai definitive dimostrano che in zone
più o meno ampie di ogni regione si sono insediate le mafie tradizionali, la
‘ndrangheta in primo luogo. Con ogni probabilità nuove (e amare) novità
verranno dalla collaborazione, di cui si è appreso in questi giorni, di
Nicolino Grande Aracri, capo di alcune delle più potenti cosche del Crotonese,
da decenni protagonista dell’espansione ‘ndranghetista in Emilia e nelle
zone confinanti della Lombardia e del Veneto. È vero – e non è poco – che le mafie
hanno da tempo rinunciato a macchiarsi di delitti eclatanti per evitare una
reazione dello Stato forte e prolungata, come quella che dopo le stragi ha
sconfitto Cosa nostra corleonese. Ma è altrettanto vero che esse sono sempre
più ricche e potenti, impegnate – proprio in questo periodo – a cogliere le
occasioni di espansione che la pandemia offre e a sfruttare la disponibilità di
appartenenti a ogni categoria sociale a entrare con loro in relazioni d’affari
e di scambio di favori. Al Sud come al Nord.
È persino superfluo ripetere che il contrasto alla mafia va condotto nel
rispetto rigoroso delle regole e dei principi costituzionali, anche nella
diversa interpretazione che ne dà la giurisprudenza nella sua continua
evoluzione: non dimentichiamo, per esempio, che in un passato non lontano la
stessa Corte aveva ritenuto conformi alla Costituzione proprio quelle leggi che
oggi ritiene illegittime, anche in relazione a un mutato quadro della normativa
europea.
Ma anche in quest’ultima decisione, la Corte Costituzionale conferma che la
mafia non è un fenomeno criminale come gli altri. Proprio per questo concede al
legislatore un anno di tempo per porre in essere “gli interventi che tengano
conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità
organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della
necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in
questi casi”.
A questo punto si ripropone il solito interrogativo: riuscirà il
legislatore a raggiungere questo obiettivo nel modo più equilibrato ed efficace
per il Paese? Saprà per esempio, evitare di estendere ad altri fenomeni
criminali meno gravi le norme più severe messe in campo contro la mafia? La materia
è delicata perché stiamo parlando di leggi che trovano giustificazione nella
eccezionale pericolosità delle associazioni mafiose e che proprio per questo
possono essere accettate, nel nostro sistema democratico, da un’opinione
pubblica consapevole, che le riterrebbe tuttavia esagerate se applicate in
altri campi. Con il rischio, di cui da qualche tempo si avvertono i primi
segnali, che alla fine quelle norme siano completamente travolte.
La Repubblica, 28 aprile 2021
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