Battaglione delle camicie nere entra in Jugoslavia nei primi giorni dell’invasione
DAVIDE CONTI
Novecento. Il 6 aprile 1941
l’invasione nazifascista della Jugoslavia. Un appello di storici chiede
giustizia per le atrocità che furono compiute allora. La «continuità dello
Stato» del dopoguerra: nessuno pagò per stragi e violenze. Mussolini annunciò
già nel ’20: politica del bastone contro la razza slava, inferiore e barbara
Il 6 aprile 1941 divisioni tedesche e italiane invadevano la Jugoslavia dividendola in zone di occupazione. L’Italia monarchico-fascista costituì la «provincia italiana di Lubiana» in Slovenia annettendo al regno di casa Savoia, dal luglio 1941, anche il Montenegro. Iniziò così l’occupazione della Jugoslavia che non solo completò l’aggressione del regime ai Balcani, iniziata nel 1939 in Albania e seguita nel 1940 in Grecia, ma rappresentò il correlato storico-politico del «fascismo di frontiera» emerso negli anni Venti con lo squadrismo e sintetizzato nei suoi obiettivi da Mussolini nella visita a Pola del 22 settembre 1920: «Di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che da lo zuccherino, ma quella del bastone (…) si possono più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».
IN LINEA con questo
impianto ideologico le truppe del regio esercito, le autorità di polizia, i
carabinieri e le milizie fasciste dei battaglioni «M» disposero su tutto il
territorio le misure della «guerra ai civili», che lo stesso popolo italiano
avrebbe poi drammaticamente conosciuto durante l’occupazione nazista.
Fucilazioni di civili e partigiani, deportazioni di massa (100.000 jugoslavi
trasferiti nei campi d’internamento italiani), incendio e saccheggio delle
città e dei villaggi (nel febbraio 1942 l’intera città di Lubiana venne
circondata da una «cintura» di filo spinato e posti di blocco e poi razziata),
stragi (il 12 luglio 1942 a Podhum 108 fucilati e oltre 800 deportati; a Niksic
e in altre città del Montenegro fucilazione di 95 comunisti e 200 civili tra il
20 giugno 1942 e il 25 giugno 1943) violenze e abusi sulla popolazione (nella
sola Lubiana morirono 33.000 persone pari al 10% dei suoi abitanti) assunsero
un carattere sistemico codificato dalle disposizioni della «circolare 3C»
firmata dal generale Mario Roatta, già capo del Servizio Informazioni Militari,
guida delle truppe fasciste in Spagna e poi al vertice della II Armata di
occupazione in Croazia.
L’OCCUPAZIONE MILITARE costò alla
Jugoslavia oltre un milione di morti mentre in tutta l’area dei Balcani i
crimini di guerra compiuti dal regio esercito e dalle autorità italiane
contribuirono da un lato al rincrudimento delle misure di repressione e
controguerriglia antipartigiana e dall’altro ad alimentare la Resistenza
militare e civile delle popolazioni in Albania, Grecia e Jugoslavia.
Nel maggio 1942
su La Voce del Montenegro il generale Alessandro Pirzio Biroli
da «governatore» della regione scriverà: «Tutto il popolo sappia che ogni
partigiano, ogni collaboratore, informatore e simpatizzante dei partigiani sarà
fucilato sul luogo della cattura». Dal canto suo Mussolini il 31 luglio 1942 a
Gorizia aveva ordinato ai generali: «Al terrore dei partigiani si deve
rispondere col ferro e col fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli
italiani come sentimentali incapaci di essere duri (…) questa popolazione non
ci amerà mai (…). Questo territorio deve essere considerato territorio di
esperienza. Non vi preoccupate del disagio della popolazione, lo ha voluto! Ne
sconti le conseguenze».
Al termine del secondo
conflitto mondiale le Nazioni Unite stilarono un lungo elenco di criminali di
guerra italiani che solo per la Jugoslavia comprendeva 750 nomi (generali,
ufficiali dell’esercito, carabinieri, questori, camicie nere) a cui si
aggiungevano i 142 iscritti nelle liste dell’Albania, i 111 della Grecia, i 12
dell’Urss.
Le ragioni della
Guerra Fredda, la nuova collocazione geopolitica di Roma e la sistematizzazione
dell’anticomunismo di Stato permisero ai governi dell’Italia post-bellica di
non estradare i criminali nei Paesi che ne facevano richiesta; evitare processi
presso un tribunale internazionale; non pagare i risarcimenti alle vittime ed
agli Stati nonostante le disposizioni del Trattato di Pace di Parigi del 1947.
Così la «mancata Norimberga italiana» rappresentò un vulnus storico
nella stessa radice di nascita della democrazia repubblicana alimentando il
falso mito degli «italiani brava gente», consentendo l’impunità dei criminali
ed il loro reinserimento negli apparati delle Forze Armate, dei servizi segreti
e delle forze dell’ordine sostanziando una «continuità dello Stato» che incise
fortemente sul carattere e la qualità della nostra democrazia nei decenni
successivi, tanto che diversi criminali di guerra furono coinvolti nelle stragi
e nei tentativi di colpo di Stato degli anni Settanta.
OTTANT’ANNI DOPO l’occupazione
della Jugoslavia, un appello di centinaia di storici e studiosi chiede alle
istituzioni e al Paese un atto di coraggio in grado di rielaborare sul piano
pubblico questo tragico passato rimosso, assumendo come memoria storica
collettiva le responsabilità per i crimini compiuti dal fascismo contro altri
popoli in un’ottica di superamento dei nazionalismi, di valorizzazione del
dettato costituzionale in ordine al ripudio della guerra, di liquidazione tanto
etico-morale quanto politico-sociale del fascismo.
Il manifesto, 6 aprile 2021
***
L’APPELLO
Alle istituzioni per
un riconoscimento ufficiale dei crimini fascisti in Jugoslavia in occasione
dell’ottantesimo anniversario dell’invasione da parte dell’esercito italiano.
QUEST’ANNO ricorre
l’ottantesimo anniversario dell’invasione della Jugoslavia da parte
dell’esercito italiano, avvenuta il 6 aprile 1941. Durante l’occupazione fascista
e nazista, e fino alla Liberazione nel 1945, in questo territorio si contano
circa un milione di morti. L’Italia fascista ha contribuito indirettamente a
queste uccisioni con l’aggressione militare e l’appoggio offerto alle forze
collaborazioniste che hanno condotto vere e proprie operazioni di sterminio. Ma
anche direttamente con fucilazioni di prigionieri e ostaggi, rappresaglie,
rastrellamenti e campi di concentramento, nei quali sono stati internati circa
centomila jugoslavi.
La Repubblica Italiana non ha mai espresso una netta condanna, né una presa di
distanza radicale da queste atrocità: non sono stati istituiti giorni
commemorativi, né sono state compiute visite di Stato in luoghi della memoria
dei crimini fascisti in Jugoslavia.
CHIEDIAMO DUNQUE al Presidente e
ai rappresentanti delle principali istituzioni una presa di coscienza di questo
dramma storico rimosso. L’ottantesimo anniversario sarebbe l’occasione ideale
per farsi carico della responsabilità storica di pratiche criminali (…). Una dichiarazione
pubblica o una visita ufficiale (per esempio al campo di concentramento di
Arbe, sull’isola di Rab, dove morirono di fame e di stenti 1465 persone)
avrebbero un notevole significato simbolico e dimostrerebbero il senso di
responsabilità delle nostre istituzioni e il riconoscimento della sofferenza
inflitta ai popoli della Slovenia, della Croazia, del Montenegro, della Bosnia
e Erzegovina. Nel solco dei precedenti incontri ufficiali che hanno avuto luogo
negli anni passati (…) questa dichiarazione rappresenterebbe un ulteriore passo
in avanti sulla strada della riconciliazione europea e di una più ampia
comprensione dei processi storici.
Il testo completo
dell’appello, già sottoscritto da centinaia di storici e studiosi, sarà
pubblicato da oggi sul sito dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, www.reteparri.it
Il Manifesto, 6 aprile 2021
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